IPAZIA - Luigi Copertino

IPAZIA

 

Luigi Copertino

intervista di Giovanna Canzano 

Italia Sociale 30.10.2009

 


… “la stessa Ipazia avrebbe avuto orrore di atei, razionalisti, anarco-comunisti e pagano-nazisti. Forse si sarebbe trovata più in sintonia con lo “spinozismo”, fritto e rifritto, di un Odifreddi”…
…“usare l’assassinio di Ipazia per dedurne un potenziale criminogeno o misogeno del Cristianesimo o della Chiesa è come usare le gesta di qualche fondamentalista o di qualche terrorista islamico per affermare che l’Islam sia di per sé fonte di barbarie. O che tale sia l’ebraismo per via del fatto che esistono tra i sionisti alcuni criminali responsabili, da ultimo, dello stermino palestinese di Gaza”… (Luigi Copertino)



Canzano 1 – Ipazia "Agora" (coproduzione spagnola-statunitense), che dovrebbe narrare la storia di Ipazia... L'ennesimo espediente per dare addosso al già decadente Cristianesimo, e tra l'altro neanche bisogna arrovellarsi tanto per capire chi c'è dietro questo film: basta andare a leggere la biografia dell'attrice protagonista Rachel Weisz.

COPERTINO – Che il Cristianesimo sia decadente è, mi lasci dire senza offesa, affermazione azzardata sotto il profilo storico-teologico. Il Cristianesimo è l’adempimento della promessa fatta ad Abramo per la salvezza di tutte le genti, nessuna esclusa. Una promessa realizzatasi in Colui che ha affermato di essere prima che Abramo fosse (Gv. 8,58) ed al Quale spetterà l’ultima parola al termine della storia (come sanno persino gli islamici). Sicché direi piuttosto che in crisi è l’identità di fede dei cristiani nell’Occidente post ed anticristiano (altrove infatti la fede cristiana sta vivendo momenti di grande fervore). Quell’Occidente fuoriuscito dalla svolta teologica, e politica, del XVI secolo, iniziata da Lutero, e che si sta chiudendo oggi con l’implosione della potenza americana ossia della potenza egemonica di tale Occidente post-cristiano. La stessa compagine ecclesiale (non dunque la Chiesa nel suo indefettibile fondamento divino) è oggi messa duramente alla prova. Tutto ciò non sorprende quei cattolici memori del fatto che ci è stato preannunziato che il cammino della Chiesa nella storia sarebbe stato, ad immagine del Suo Signore, prima un “ingresso messianico” e poi un cammino travagliato come un “Calvario” in vista della “Pasqua”. Pur nella promessa della vittoria finale, quello della Chiesa nella storia è necessariamente un itinerario di Passione prima dell’alba della Resurrezione. Diceva sant’Agostino che il cammino storico della Chiesa si svolge tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. Quindi che gli attacchi alla fede si siano negli ultimi secoli intensificati è cosa scontata e perfettamente comprensibile in un’ottica teologica. Che, dopo ed insieme a quelle materiali, siano sopraggiunte anche le aggressioni “spirituali” e che esse si siano ulteriormente accentuate nel corso del XX secolo, ed in particolare negli ultimi decenni, è la riprova che quanto a suo tempo preannunziatoci, “Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà, troverà la Fede sulla terra?” (Lc. 18,8), sta diventando sempre di più una realtà palpabile. I Dan Brown, i Corrado Augias, i Mauro Pesce, i Gad Lerner, gli Umberto Eco, gli Odifreddi oggi si sprecano ma non sono neanche originali, nel loro anticattolicesimo, perché preceduti dalle Blawatsky, dai Voltaire, dai Renan, dai Nietzsche e dai Zola. Gli epigoni di oggi sono soltanto dei ripetitori delle tesi, più o meno aggiornate, dei loro predecessori. L’unica differenza sta nel fatto che quanto nel XIX e prima parte del XX secolo era un latrare pseudo-scientifico di alcune élite intellettuali, oggi è diventato un latrare di massa. Sul Cristianesimo e sulla Chiesa Cattolica circolano incredibili menzogne storiche, vere e proprie “leggende nere” (alle quali non serve affatto contrapporre altrettanto inconsistenti “leggende rosa”, secondo il metodo di una cattiva apologetica ancora in uso in certi circoli tradizionalisti). Libri come “Il Nome della rosa” oppure come “Il Codice da Vinci” (a sua volta plagio de “Il santo graal” - 1994 - di Michael Baigent, Richard Leigh e Lincoln Henry, altri tre rivelatori di presunti “segreti esoterici”), sensazionali pseudo-scoperte di testi gnostici, ampiamente già conosciuti, come il “Vangelo di Giuda”, lanciato su scala globale dalla potente lobby editoriale del National Geografic, finiscono per fare presa sulla gente comune, ignara di seri studi teologici, filosofici e storici. Il film “Agora”, sulla vicenda di Ipazia, è l’ultimo episodio di questa sceneggiata. Non a caso abbiamo assistito anche nella fattispecie ad una vera e propria escalation: pochi mesi fa un documentario in argomento su La7, nella trasmissione “Atlantide”, subito dopo della questione si sono impadroniti Odifreddi e l’unione atei e razionalisti, ora questo film contemporaneamente osannato da anarchici e circoli neo-pagani, orfani del comunismo e nostalgici del nazismo. Il bello è che la stessa Ipazia avrebbe avuto orrore di atei, razionalisti, anarco-comunisti e pagano-nazisti. Forse si sarebbe trovata più in sintonia con lo “spinozismo”, fritto e rifritto, di un Odifreddi. Naturalmente fa gioco il fatto che la dotta e bella Ipazia sia stata vittima di alcuni fanatici che si fregiavano, quanto degnamente lo si è visto, del nome cristiano. Ma usare l’assassinio di Ipazia per dedurne un potenziale criminogeno o misogeno del Cristianesimo o della Chiesa è come usare le gesta di qualche fondamentalista o di qualche terrorista islamico per affermare che l’Islam sia di per sé fonte di barbarie. O che tale sia l’ebraismo per via del fatto che esistono tra i sionisti alcuni criminali responsabili, da ultimo, dello stermino palestinese di Gaza. Personalmente mi rifiuto di leggere le cose con queste categorie generiche, idiote, astratte, che svelano in chi le fa proprie soltanto ignoranza, nella migliore delle ipotesi, o malafede, nella peggiore. Recentemente, in tempi come i nostri ossessionati dal pericolo del fondamentalismo islamico, si è riaccesa anche sui media una polemica sulle responsabilità di parte mussulmana nella distruzione nel VII secolo della biblioteca di Alessandria, o di ciò che di essa era stato ricostruito. La storia è una cosa complessa e non si può certo da polemiche come questa dedurre un qualche giudizio di valore circa la supposta inciviltà dell’islam, perché altrimenti non sapremmo dove mettere Avicenna o Averroé o ancora la mistica sufi (al di là di qualsiasi loro valutazione intrinseca). Così pure il fatto che parte dei cristiani (attenzione a non generalizzare: “parte dei cristiani” e non “i cristiani”) dei primi secoli non seppero essere degni di tal nome e si lasciarono andare a vendette contro i pagani, che da parte loro avevano ferocemente perseguitato i primi (anche su istigazione delle sinagoghe diffuse per tutto l’impero), non può far faziosamente concludere su una supposta inciviltà del Cristianesimo: altrimenti, in tal caso, non sapremmo dove mettere Agostino, Francesco, Tommaso d’Aquino, la grande mistica cristiana, etc.

Canzano 2 – Ma quali furono i contorni storici della vicenda tragica di Ipazia?

COPERTINO – La povera Ipazia, il cui ritratto campeggia nell’affresco di Raffaello “La Scuola di Atene” che si trova - guarda caso - senza alcun problema di censura nei Musei vaticani, rimase vittima del fanatismo politico che usava nascondersi dietro pretesti teologici in tempi nei quali il seme della distinzione tra Fede e politica (“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”: che però non significa opposizione di fede e politica) non era ancora giunto a piena maturazione. La Chiesa ha sempre sofferto quando è rimasta, magari suo malgrado, coinvolta nelle lotte politiche del momento, eppure, dato che Essa legge gli eventi sub specie aeternitatis, è sempre riuscita a limitare il peso condizionante della politica e, siccome Dio sa scrivere dritto sulle righe tracciate storte dagli uomini, è sempre riuscita anche a porre rimedio agli errori umani dei suoi figli. Ipazia, figlia del filosofo e matematico plotiniano Teone, non era solo una grande esponente del neoplatonismo ma era diventata in Alessandria una sorta di eminenza grigia dei locali capi politici, che, ammirandola per la sua saggezza filosofica, praticamente pendevano dalle sue labbra. La sua filosofia poneva senza dubbio problemi nei suoi rapporti con la comunità cristiana locale che era già a sua volta in cattivi rapporti con gli ebrei di Alessandria. Le violenze tra le due comunità, cristiana ed ebraica, erano frequenti e reciproche. Nel 414 gli ebrei di Alessandria fecero strage dei cristiani provocando la reazione del Vescovo Cirillo che li cacciò dalla città. I cristiani, che stavano diventando la forza religiosa egemone nell’orbe romano, si trovavano in Alessandria stretti da una sorta di, non dichiarata, alleanza politica tra ebrei ed ellenisti pagani. Una situazione difficile da gestire, in un momento nel quale l’autorità imperiale, spesso ingerendosi nelle cose ecclesiali, spingeva, allo scopo di rafforzare il proprio potere, affinché i vescovi si occupassero assiduamente, e con metodi non sempre consoni alla “missio” cristiana, della conversione di ebrei e pagani. Oltretutto in quel momento la comunità cristiana era alle prese con la disputava teologica innescata da Nestorio, il Patriarca di Costantinopoli, al quale si era opposto proprio Cirillo, vescovo di Alessandria e uno tra i più grandi Padri della Chiesa, che riuscì, prima nel Concilio di Efeso del 431 e poi nel Concilio di Calcedonia del 451, a far riaffermare la Fede nella Divino-umanità di Cristo che la teologia di Nestorio aveva sminuito fino ad implicitamente negarla (a dimostrazione della sua tolleranza ed a confutazione di certe leggende nere sul suo conto, voglio ricordare che Cirillo prima di chiedere la condanna ecclesiale di Nestorio tentò ripetutamente di recuperarlo e, dopo la condanna, si prodigò con successo per ricostruire la comunione ecclesiale con Costantinopoli ed Antioca, sedi principali del nestorianesimo). All’origine dell’accusa, mai provata e tuttora affermata, come nel caso del film in questione, senza prove, rivolta a Cirillo di essere stato il mandante dell’assassinio di Ipazia, vi è il conflitto teologico tra il calunniato vescovo di Alessandria e Nestorio. Furono gli avversari ariani (i seguaci dell’eretico Ario) e nestoriani di Cirillo ad accusare il Vescovo di aver ordito l’assassinio della filosofa. Una diceria senza alcun sicuro fondamento storico, a parte la non proprio imparziale fonte costituita dai libelli dei nemici nestoriani ed ariani del Vescovo, come Socrate Scolastico e Filostorgio. Diceria altamente sospetta ripresa, a distanza di quasi un secolo dai fatti, dal filosofo pagano Damascio per infine giungere fino al XVIII secolo quando il protestante, accesamente anticattolico, Edward Gibbon iniziò a costruire il mito della “martire pagana” che ora il film “Agora” ripropone per lo scandalo degli schiocchi e l’astuzia degli infingardi. Gli accusatori odierni di Cirillo si appigliano al fatto che ad uccidere Ipazia sarebbe stato un gruppo di “parabalanoi”, che erano una sorta di “barellieri” ossia una milizia ecclesiastica, guidati da un certo Pietro. Ipazia, che come detto era assurta a consulente politica in un clima politicamente surriscaldato, fu uccisa nel marzo del 415, appena un anno dopo i torbidi del 414 ed appena tre anni dopo che Cirillo era diventato vescovo di Alessandria. Come si è detto, il clima nei rapporti tra cristiani ed ebrei non era, ad Alessandria, in quel momento dei più sereni e ciascuna delle due comunità si era organizzata per l’auto-difesa. Ora, come accade spesso in situazioni del genere, dalla difesa si può facilmente passare all’attacco con i conseguenti eccessi, soprattutto se all’interno di una comunità approfittano dei torbidi gli elementi più zelanti fino al fanatismo. Fanatici e fondamentalisti esistono, purtroppo, in qualsiasi gruppo umano, ad ogni latitudine ed in ogni epoca. Inutile scandalizzarsi o usare lo scandalo per generalizzare odiose e pretestuose accuse contro questo o quel gruppo. Quando un paio di anni fa, Ariel Toaff ha creduto di aver provato la responsabilità di alcuni fanatici ebrei nell’assassinio del povero Simonino da Trento abbiamo assistito alla reazione indignata della comunità ebraica: reazione incomprensibile se si parte dalla Sapienza cristiana che nel suo realismo sa essere la natura umana, di tutti e di qualunque uomo, cristiano, ebreo, islamico, indù, europeo, americano, africano, ferita dal peccato originale e quindi costantemente bisognosa di misericordia e redenzione, che da sola non può darsi. Vi è poi l’altra leggenda, la cui fonte sono ancora una volta gli scritti degli avversari nestoriani ed ariani di Cirillo e lo scritto tardivo di Damascio, circa la presunta invidia nutrita dal Vescovo alessandrino per la filosofa “femmina” che, con la sua grande cultura, oscurava il suo prestigio di teologo “maschio”. Una leggenda, questa, poi, in tempi più recenti, ripresa, anche per l’influsso dell’opera di Silvia Ronchey, in chiave femminista: la povera donna vittima del cruento potere maschio e, in quanto ecclesiale, pure misogino. Circa la misoginia della Chiesa basta considerare, per smontare l’assurdo, l’iperdulia alla Vergine Maria, il grandissimo numero di donne canonizzate e la notevole presenza femminile tra i “Dottori della Chiesa” e nella mistica cristiana. Per quanto riguarda la pretesa invidia di Cirillo verso Ipazia, chi sostiene questa tesi non tiene conto del fatto che il Vescovo di Alessandria era egli stesso uno dei più noti ed ammirati teologi e filosofi del tempo, sicché non si capisce proprio da dove sarebbe nata la sua invidia per la collega. Sarebbe come dire che un grande teologo quale Joseph Ratzinger sia oggi invidioso di una qualche colta docente di filosofia di qualche notorietà. Del tutto risibile! In realtà, nel “santino” biografico di Ipazia elaborato da Damascio traspare un elemento tipico di un certo ambiente culturale del tempo, ossia il cosiddetto “femminino sacro” ovvero una spiritualità che faceva del sacro qualcosa di eminentemente femminile. Nel femminismo moderno ritroviamo il retaggio di tale sacralità al femminile. Esisteva poi, in complementare sintonia con tale spiritualità, quella che invece insisteva sulla essenziale “mascolinità” del sacro e svalutava in termini negativi il sesso femminile. Ne troviamo esempi chiari proprio nel cosiddetto “Vangelo di Giuda”. Ma entrambe queste, in apparenza opposte ma in effetti complementari, spiritualità appartengono ad un orizzonte religioso intriso di gnosi e nulla hanno a che fare con la Rivelazione ebraico-cristiana, sicché usarle, traendole da Damascio o di chi altri, per costruire la leggenda del vescovo misogeno ed invidioso della colta filosofa è storicamente del tutto arbitrario perché è un’operazione evidentemente viziata da un presupposto “ideologico”. Senza poi contare che la liberazione della donna ha inizio dall’episodio evangelico della, mancata, lapidazione dell’adultera (“Chi tra voi è senza peccato scagli la prima pietra”). Certamente il seme lì gettato ha dovuto aspettare diversi secoli per giungere a maturazione ma è indubbio che senza Cristo la donna sarebbe rimasta, o tornerebbe ad essere, oggetto matrimoniale di compravendita o comunque di mercificazione (e mi riferisco, oggi, anche a quella mediatica e pornografica).

Canzano 3 – Perché la Chiesa cattolica non accettava la filosofia di Ipazia?

COPERTINO – Non è questione di accettazione o meno. Il diffondersi della fede cristiana nell’orbe romano comportò anche l’incontro con la grande cultura ellenistica e dunque con la filosofia platonica e neoplatonica che ne costituiva, nei primi secoli cristiani, il nerbo principale. Incontro testimoniato ad iniziare dall’episodio del discorso di Paolo ai filosofi dell’aeropago (“areopagita” fu non a caso detto quell’ignoto autore cristiano del VI secolo - ma il Turolla ne retrodata le opere al II secolo -, iniziatore della teologia mistica, chiamato Dionigi). In realtà l’incontro tra Fede biblica e Logos ellenistico, tra Gerusalemme ed Atene, ebbe inizio, come non si stanca di ripetere Benedetto XVI, molto prima di Cristo, a partire da Mosé (l’“Io sono Colui che sono” di Esodo 3,14 è rivelazione contemporanea all’inizio della ricerca ontologica, ossia alla ricerca dell’Essere Primo, da parte dei filosofi dell’antica Grecia) e trovò il suo provvidenziale momento culminante nel I secolo avanti Cristo con la traduzione in greco della Bibbia, nella versione cosiddetta dei Settanta (il testo masoretico, ossia la vocalizzazione della versione ebraica, una versione che in tal modo finiva per discostarsi da quella che fino a quel momento era stata ritenuta sia dai cristiani che dagli ebrei, pur nella traduzione greca, l’autentico testo della Scrittura, è solo del I-II secolo dopo Cristo). Dunque la fede cristiana, che è il vero adempimento dell’ebraismo e delle promesse fatte ad Abramo, iniziò il suo cammino storico incontrando, sulla scia di un percorso già comunque in atto da secoli, il mondo filosofico ellenistico. Questo pose al Cristianesimo da un lato la necessità di calare la fede nella cultura ellenistica e dall’altro la necessità di selezionare, purificare, questa cultura in ordine a quanto in essa, a causa del suo (uso il termine in senso lato) “panteismo”, non poteva affatto conciliarsi con la Rivelazione ebraico-cristiana. La grande filosofia pagano-ellenistica aveva sicuramente avuto intuizioni pre-cristiane fondamentali, come ad esempio la categoria della “analogia ontologica”, ossia della “partecipazione” del mondo sensibile al mondo sovrasensibile, che Platone introdusse ed Aristotele rielaborò, ma non poteva andare oltre queste intuizioni perché, avulsa dalla Rivelazione biblica, non possedeva la nozione della creaturalità del cosmo. Da qui il tendenziale ed inevitabile “panteismo” della filosofia ellenistica che, nella convinzione filosofica dell’eternità del mondo, finiva per far coincidere il “divino” con il mondo: o meglio, finiva per fare del mondo un riflesso o una emanazione di un’“anima mundi”, di un “motore immobile”, che però non era concepito nei termini della trascendenza ebraico-cristiana ma in quelli, potremmo dire con termine oggi molto usato, e rivalutato in ambito scientifico post-determinista, del “monismo” o “dell’“olismo”. Il che implica, di conseguenza, l’impersonalità di questo “divino” nascosto dietro l’illusorietà del cosmo. Non a caso Platone nel mito della caverna svaluta ampiamente il mondo reale in favore delle idee iperuraniche. In questo vi sono evidenti echi di un atteggiamento che potremmo definire in senso lato “gnostico”. Ovvero la negazione di ogni valore e consistenza alla creazione, il ritenere cioè la creazione, in quanto opera di un malvagio demiurgo, responsabile della frammentazione dell’unità impersonale originaria, essenzialmente qualcosa di poco positivo, se non addirittura, nelle forme più radicali di tale posizione filosofica, qualcosa di malvagio. Si badi bene che questi concetti ritornano nel corso dei secoli: li ritroviamo, sebbene declinati in forme diverse a seconda dei contesti, ad esempio nel catarismo medioevale con il suo odio, fino al suicidio per inedia ed alla pratica infeconda della sessualità, per il corpo, per la carne. Anche il “panteismo” ellenistico sarà riproposto attraverso i secoli: ad esempio, nella forma dell’ontologismo soggettivistico, da Spinoza, Cartesio, Kant e tutto l’idealismo ottocentesco. E tuttavia, come detto, i Padri della Chiesa si adoperarono in un grande sforzo per salvare ciò che di grandiosamente pre-cristiano l’ellenismo aveva intuito. E’ stato, checché ne dicano i detrattori, il Cristianesimo a salvare il meglio dell’ellenismo ed a tramandarcelo. E lo sforzo dei Padri della Chiesa riuscì in pieno ponendo la basi della grande stagione della teologia medievale e dell’unione tra Fides et Ratio che è andata poi in frantumi con Lutero. Ma quello sforzo non fu senza polemiche e battaglie teologiche e filosofiche, soprattutto con i rappresentanti di quel monismo pagano che era per l’appunto il neoplatonismo, Plotino, Proclo, Giamblico e la stessa Ipazia. Di quest’ultima sappiamo molto poco e quel poco non direttamente attraverso le sue opere, che non ci sono pervenute, ma attraverso quanto di esse è possibile ricostruire da quel che, circa il suo pensiero, ci dicono un suo allievo, Sinesio, ed il già nominato, e sospetto per faziosità partigiana, Damascio di Damasco, anch’egli filosofo neoplatonico. Il carattere che abbiamo definito latamente “gnostico” del neoplatonismo trapela anche nel caso di Ipazia da un episodio che proprio Damascio ci tramanda. Si racconta che un discepolo si innamorò della colta ma anche, dicono, bellissima Ipazia. Costei un giorno si presentò al suo spasimante mostrandogli un panno imbrattato di mestruo femminile e gli disse: “Questo dunque ami, o giovane, niente di bello!”. Qui è evidente quella svalutazione della persona umana a cui conduceva il neoplatonismo che annetteva importanza, anche ai fini della salvezza, soltanto all’anima e disprezzava il corpo come impuro in quanto materiale. La Fede ebraico-cristiana nella Divino-umanità di Cristo e nella resurrezione della carne, invece, comportava un annuncio di salvezza integrale dell’uomo, spirito, anima e corpo, che pertanto si scontrava con il limite gnostico, “spiritualista”, del neoplatonismo. Per la Rivelazione ebraico-cristiana l’uomo è Imago Dei sicché anche il suo corpo, non solo l’anima, è Tempio dello Spirito Santo. Il corpo umano non è impuro, come nella concezione neoplatonica, ma è cosa buona perché creato da Dio. Tutta la creazione è buona e riflette l’Amore Infinito del suo Autore. Per il Cristianesimo, a differenza del neoplatonismo, l’uomo riflette la perfezione e la bellezza del Verbo non solo nell’anima ma anche nel corpo ed è per questo che il Logos ha assunto integralmente la natura umana, spirito, anima e corpo, si è incarnato. Ora si faccia attenzione a quali conseguenze avrebbe portato una eventuale vittoria del neoplatonismo. Il disprezzo del corpo porta inevitabilmente all’indifferenza verso la sofferenza umana. Le gnosi, per quanto sublimi, come il neoplatonismo, inducono ad evitare con orrore ciò che è legato al corporeo, sia la fecondità sessuale sia la carità verso i poveri ed i sofferenti. In una prospettiva neoplatonica non ha alcun senso preoccuparsi delle sofferenze umane perché esse sono solo il risultato della “caduta” dell’anima nella materia oscura ed impura. In tale prospettiva l’unico atteggiamento sensato è rinnegare la corporeità per astrarre l’anima e riportarla alla fusione nell’Anima Mundi. Insomma il neoplatonismo, come del resto le grandi religioni asiatiche per molti versi ad esso simili, non conoscono la kenosi di Dio, il piegarsi amorevole di Dio sulla creatura sofferente per salvarla integralmente e dunque non conoscono, di conseguenza, la dimensione della Carità e della Misericordia. Dimensione della Carità che è, invece, il dono, tra i più preziosi, che la Rivelazione ebraico-cristiana ha fatto all’umanità, benché questa oggi, ingrata, non sembra più tenerla un gran che in conto. Se si fosse seguita la via neoplatonica di Ipazia non avremmo avuto la svolta verso i deboli, i sofferenti ed i poveri che solo il Cristianesimo ha introdotto nella storia. Non avremmo avuto gli ospedali che, insieme alle università, sono frutto del medioevo cristiano. Non avremmo avuto la grande ed inesauribile fonte della carità e della misericordia testimoniata da centinaia di santi e di opere ed iniziative materiali, e sociali, nate nell’alveo cristiano. Non avremmo avuto neanche quelle eresie (anti)cristiane che sono il liberalismo e il socialismo. In India, ad esempio, dove la tradizionale cultura locale indù e buddista ha, come detto, aspetti religiosi e filosofici per certi versi molto simili a quelli del neoplatonismo antico, è stato solo con l’arrivo del Cristianesimo, un grandissimo nome per tutti Madre Teresa di Calcutta, che anche i poveri, i paria, i senza casta, i reietti, i dannati della terra, hanno iniziato a conoscere quell’Amore capace di alleviare le loro sofferenze e di restituire loro la perduta dignità. E di questo che dovrebbero tenere conto certi occidentali innamorati dell’estremo oriente, sul tipo di Tiziano Terzani che, ricordo di aver letto di recente, polemizzava con il parroco del suo paese proprio a proposito della valorizzazione cristiana del corpo. Ma, come detto, ciononostante la Fede ebraico-cristiana non fu affatto fondamentalista nei confronti dell’avversario neoplatonico (Sant’Agostino, come tutti i Padri della Chiesa, aveva una formazione culturale platonica) ma seppe di esso recuperare e far propri quegli elementi di verità, quelle intuizioni pre-cristiane, che pur esso possedeva, purificandoli ed integrandoli, alla luce della Rivelazione, nell’ambito della Fede. Non a caso i Padri della Chiesa parlavano, con riferimento al pensiero dei grandi classici dell’ellenismo, dei “semina Verbi”, della “preparatio evangelica” e della “propaideia Christoù”. Sinesio, l’allievo di Ipazia, tramite il quale conosciamo qualcosa del pensiero della grande filosofa, si convertì alla Fede cristiana e divenne vescovo di Cirene, pur continuando a coltivare la memoria della maestra. Ma, dopo la conversione, egli coltivò quella memoria da cristiano che era riuscito a trovare la via invano cercata dalla maestra. Sinesio, magari anche grazie a qualche intuizione di Ipazia, si convinse che quella Sapienza che i filosofi cercavano a tentoni, e che nonostante la loro grandissima statura umana avevano solo intuito, si era incarnata, si era resa, anti-gnosticamente, toccabile da mani umane, in Cristo Gesù. Ancora nel XX secolo è stato un altro grande convertito, dal socialismo, al Cristianesimo, Charles Peguy, a cantare le lodi di Ipazia, esaltandone la fedeltà alla filosofia neoplatonica. Da parte nostra non possiamo che rammaricarci che la bella e colta Ipazia non abbia saputo incontrare, come Agostino, già qui sulla terra (perché l’al di là è cosa che lasciamo all’insondabile Mistero dell’Amore di Cristo), quella Sapienza Incarnata che lei cercava nelle sfere celesti dell’iperuranio. Sarebbe stata certamente un grande “Dottore della Chiesa”, un Agostino o un Origene donna.

Canzano 4 – Perché un film con una attrice protagonista ed uno staff con rilevante presenza ebraica? Rachel Weisz è l’attrice che in “Agora” impersonifica Ipazia. Il suo cognome è ungherese, ma di origine ebraica. Si scrive Weisz e si pronuncia Vais, che in inglese vuol dire vizio (si scrive vice). Ma il fatto curioso è che durante gli studi a Cambridge, Rachel è stata compagna di corso di un ragazzo con un cognome strano quasi quanto il suo, tale Chris Weitz che poi, parecchi anni dopo, l'avrebbe diretta nella commedia About a boy insieme al fratello Paul. Ma queste sono solo coincidenze, gli strani casi della vita. E la vita di Rachel Weisz inizia a Londra, il 7 marzo 1971. Figlia di un medico ungherese con la passione per le invenzioni e di una psicoanalista viennese, la Weisz a quattordici anni comincia a posare come modella, poi si avvicina al teatro ... 

 

 COPERTINO – Apprendo da lei, in questo momento, quali sarebbero le origini etniche e familiari dell’attrice che interpreta nel film Ipazia. Personalmente non credo che tali origini spieghino il fatto che la Weisz abbia accettato la parte. Cristianamente con san Paolo affermo che “non c’è più né giudeo né greco” e quindi rifuggo da qualsiasi messaggio che ammicca al razzismo o anche solo all’etnicismo. Chiunque se ne faccia latore: giudeo o greco. Se invece vogliamo chiederci quali siano le “forze” che ispirano e finanziano certi film, il discorso può assumere contorni più verosimili. Ancora con san Paolo potremmo in tal caso parlare degli “spiriti che sono nell’aria” o, con terminologia più moderna, degli état d’esprit e dei loro fabbricatori e propagatori mediatici. Lei certamente ricorderà Louis Pauwels autore anni fa, con l’esoterista Jacques Bergier, di un discusso best seller dal titolo “Il mattino dei maghi”, che conteneva tra l’altro un’accurata analisi sulle radici occultistiche dell’ideologia nazista diventata poi l’antesignana di successivi ed importanti indagini storiche e politiche su questi aspetti come dire “nascosti” della storia (penso, per fare un solo esempio, al testo di Giorgio Galli “Hitler ed il nazismo magico”). Pauwels non faceva mistero della sua appartenenza alla destra radicale e neopagana. Non a caso contribuì molto al lancio editoriale, nei salotti buoni della Francia giscardiana, di Alain de Benoist, il capofila della cosiddetta Nouvelle Droite, un gruppo intellettuale che negli anni ’80, ripropose, in modalità aggiornata, una ideologia nicciano-dumeziliana che voleva essere nelle sue intenzioni il paganesimo adatto ai tempi post-moderni. Ebbene, a seguito di un incidente cui conseguì una esperienza di tipo mistico, sulla quale però ha sempre mantenuto uno stretto riserbo, Pauwels, con grande scandalo della Parigi che conta finanziariamente e culturalmente, si convertì al Cattolicesimo. Un percorso molto simile, anche quanto ad esperienza mistica, a quello di un altro noto intellettuale d’oltralpe, di origini ebree e protestanti, con un padre fondatore del Partito Comunista Francese, il giornalista, anch’egli come il padre ateo e comunista, André Frossard. Intervistato da Vittorio Messori (“Inchiesta sul Cristianesimo”, Mondadori, 1993), Louis Pauwels sorprese il suo interlocutore affermando senza esitare l’esistenza, sono testuali sue parole, di “un complotto mondiale di forze anticristiane che mirano ad indebolire la fede dei cattolici”. Ed al Messori che, sorpreso, tentava di fargli notare che la dietrologia è sempre pericolosa e poco credibile, Pauwels rispondeva seccamente: “Stia a sentire: sono stato anch’io, e per tutta la vita, un nemico del cristianesimo, della Chiesa. Mi si può credere se parlo di una congiura organizzata da forze potenti che tramano nell’ombra. Lo dico a ragion veduta. Non aggiungo altro. Lei sa qualcosa del mio passato, saprà capire. Ora che la verità mi è stata donata, voglio dedicare tutto il tempo che mi resta a difenderla dai suoi nemici esterni ed interni, questa vecchia, meravigliosa Catholica.”. Le ho citato questo passaggio dell’intervista a Pauwels perché voglio evidenziare che non è tanto un problema etnico il fatto che alcuni con mezzi di ogni genere, compresa la cinematografia, tentino di spargere menzogne e pregiudizi contro la Rivelazione ebraico-cristiana e la Chiesa, quanto appunto un problema di “spiritualità” o se vuole di “controspiritualità”. Di “spiriti dell’aria”, di “état d’esprit”, che hanno a loro disposizione ingenti fonti finanziarie e incontenibili strumenti di influenza mediatica e psicologica sulle masse, a livello globale.
Piuttosto mi pare più significativa, rispetto all’ebraicità della Weisz, la dichiarata omosessualità ed il dichiarato filo-zapaterismo del regista del film, lo spagnolo Alejandro Amenàbar, perché mi pare poco credibile affermare che tali fatti personali non abbiamo avuto il loro influsso nell’anticattolicesimo propugnato dal film.

Canzano 5 – Resta il fatto che però in questi ambienti anticristiani la presenza ebraica è rilevante. Perché mai? Quale è il ruolo di Israele in una lettura teologica della storia e perché l’ebraismo non ha accettato Gesù come Figlio di Dio e Messia?

COPERTINO – La presenza ebraica negli ambienti anticristiani non è superiore a quella di altro tipo o origine. Del resto è un errore valutare il mondo ebraico come un unicum. C’è un proverbio che dice più o meno “due ebrei e tre opinioni”. Le faccio l’esempio della questione della canonizzazione di Pio XII (che personalmente auspico ed al più presto). Mentre certi settori dell’ebraismo, anche italiano (penso, ad esempio, al rabbino Riccardo Di segni, uomo molto pregiudizialmente prevenuto verso la Chiesa, checché ne pensino certi prelati), sono ferocemente contro tale canonizzazione, ed ingerendosi di cose che non li riguardano, si oppongono ad essa, anche perché ignoranti delle acquisizione storiografiche a favore di Pio XII che non era affatto il “papa di Hitler” ma l’unico vero suo oppositore nell’Europa del tempo, altri settori del mondo ebraico, in particolare (benché sembri strano a dirsi) americano, sono invece assolutamente favorevoli a Pio XII “santo subito”. Come del resto lo era il mondo ebraico dell’immediato dopoguerra, consapevole dell’operato del Papa in suo favore negli anni tragici della guerra, che rivolgeva a Papa Pacelli pubbliche espressioni di grande gratitudine. Personalmente rifuggo da ogni generalizzazione. E ciò deve valere per gli ebrei come per gli islamici o per i cristiani, o per qualsiasi altro gruppo umano. Bisogna sempre distinguere, saper cogliere le diverse sfumature e mai fare di ogni erba un fascio. Anche nelle spinose vicende attuali non bisogna mai dimenticare che se da una parte ci sono i sionisti che prostituiscono il Dio di Abramo alla violenza politica (ma anche tra essi non bisogna escludere la presenza di persone di sana coscienza, come ad esempio una Livia Rokach), dall’altra ci sono gruppi del rabbinato come i Neturei Karta o i Rabbis for Human Rights che si adoperano anche materialmente e con ammirevole spirito di carità verso le sofferenze dei palestinesi. Del resto, si dimentica sempre, d’altro canto, che se Hamas ed Hezbollah sono anche milizie armate hanno però messo in piedi una vera e propria rete di assistenza sociale per le popolazioni di Gaza e dei territori occupati vittime della guerra: e si badi non solo islamiche ma anche cristiane. Come pure, del resto, le chiese e le organizzazione cristiane libanesi furono in prima linea, nel 2006, durante l’aggressione israeliana al Libano, nel soccorrere i loro fratelli mussulmani aprendo loro le porte degli istituti cristiani. Ecco, è necessario sempre approfondire le questioni e non usare mai l’indegna arma, tribale ed arcaica, della colpa collettiva, né contro gli ebrei, né contro i cristiani, né contro i mussulmani. Neanche, e lo dico ai “fratelli maggiori”, contro i tedeschi, che a loro volta hanno duramente sofferto (a circa due milioni ammontano le vittime civili tedesco-orientali durante l’avanzata dell’armata rossa, senza dimenticare le vittime di quell’odioso crimine contro l’umanità che fu la barbara distruzione angloamericana di Desdra).
Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, la risposta non può che sfiorare il “mistero”. Israele è stato il popolo scelto dal Dio trascendente per rivelare Sé stesso ad un mondo caduto, a causa del peccato originale, nell’idolatria pagana, nell’immanentismo panteistico, e per portare la salvezza a tutti i popoli. Ma Israele, lo testimonia ampiamente la sua storia veterotestamentaria, non sempre è rimasto fedele, nonostante i richiami dei profeti, al Dio della Rivelazione. Il fatto è che portare la responsabilità di un Deposito così grande come la Rivelazione non è cosa semplice e la tentazione maggiore è quella di “mondanizzare” la Promessa, di iniziare ad interpretare il proprio ruolo in termini autoreferenziali ponendosi al centro della storia senza valutare a fondo se effettivamente è questa la volontà di Dio. Da qui ad iniziare a pensare al Messia come ad un glorioso capo politico, ad un invincibile condottiero, che avrebbe liberato Israele dalla soggezione ai gentili e che lo avrebbe innalzato al di sopra di essi, il passo, l’ingannevole passo, è facile. E si badi: è anche un passo umanamente comprensibile, tanto che nell’episodio di Mc. 10, 35-45, quando Giacomo e Giovanni chiedono a Cristo di poter sedere al suo fianco, l’uno a destra e l’altro a sinistra, nel Regno, ottenendone lo scandalo degli altri discepoli invidiosi ed il rimprovero di Gesù, i due “ambiziosi” discepoli dimostrano di ragionare esattamente secondo il cliché prevalente tra gli ebrei del loro tempo, quello che pensava al “Regno” come ad una sorta di teocrazia terrena. Ecco perché quel tipo di ebraismo, così esegeticamente fuori strada, non ha riconosciuto in Cristo, che diceva “il mio Regno non è di questo mondo”, l’atteso Messia, da esso immaginato come capo politico. Uno scandalo, poi, un Messia che muore in Croce come un malfattore (e questo sia di monito a coloro che pensano a Cristo come ad un pover’uomo “divinizzato”, secondo gli schemi della mitologia pagana, dai suoi discepoli: mai un ebreo, e gli apostoli erano tutti profondamente ebrei, avrebbe accettato la Divino-umanità di un uomo se non avesse, come dice Giovanni evangelista, “visto con i propri occhi e toccato con le proprie mani”). L’adempimento dell’ebraismo veterotestamentario è solo il Cristianesimo. Il Cristianesimo è l’unico vero ed autentico ebraismo, che giunge a compimento storico nel momento in cui si universalizza: è stato Cristo, e non Israele, checché ne dicano i rabbini oggi, a portare il Dio di Abramo a tutte le genti. Se quel Dio fosse rimasto, come nell’esegesi rabbinica, il Dio di un solo popolo, benché votato ad una missione universale e per questo destinato a soffrire, non sarebbe mai diventato il Dio di tutte le genti. Questo è fuori discussione perché oggettivamente testimoniato dalla storia: basta guardarsi attorno e verificare chi ha fatto entrare le genti nell’Alleanza con il Dio di Abramo, se Cristo o l’Israele post-biblico. Il giudaismo post-biblico, che continua sulla strada esegeticamente errata che era prevalsa tra gli ebrei ai tempi di Cristo, non è il vero ebraismo: so bene che dire questo non è affatto “ecumenicamente corretto” ma è ineludibile per un cristiano che sa che Cristo è la pietra scartata dai costruttori del Tempio di Dio, ossia dagli israeliti, e divenuta testata d’angolo di quel Tempio ossia della Chiesa, intesa come continuazione del Vero Israele, nel quale sono entrati, stanno entrando, tutti i popoli. “Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta”, ammonisce Cristo in Lc. 13, 35, “fino al tempo in cui direte: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!”. Alla luce di questo insegnamento profetico di Cristo, san Paolo, nel capitolo IX della Lettera ai Romani, afferma che gli israeliti sono attualmente rami recisi dall’Olivo Santo di Israele, con ciò implicitamente facendo intendere che il giudaismo post-biblico non è più, temporaneamente, nell’alveo della Rivelazione, è come sospeso in atteso che, cadendo loro la benda che da soli si sono posti sugli occhi dello spirito, i nostri “fratelli maggiori” entreranno in massa nella Chiesa, ossia in termini paolini saranno reinnestati nell’Olivo Santo, riconoscendo Cristo e finalmente rinunciando alla loro mondana pretesa di costituire, dopo e senza Cristo, una porzione spiritualmente speciale dell’umanità. Non bisogna però dimenticare che nello stesso passo Paolo ammonisce i cristiani provenienti dal paganesimo ad essere misericordiosi con gli ebrei: cosa che, è necessario riconoscerlo, non sempre essi sono stati capaci di essere (del resto questa è stata in passato una mancanza reciproca e non certo unilaterale solo da parte cristiana). Si tratta di una promessa escatologica che si compirà soltanto alla fine dei tempi. Ed è per questo che nel corso dei secoli, prima i Padri della Chiesa, si vedano in proposito le belle e toccanti pagine di Agostino ne “La Città di Dio”, e poi diversi mistici cristiani, hanno interpretato la sopravvivenza di Israele dopo Cristo come quella di un popolo testimone della Verità della Fede in attesa di rientrare nel recinto sacro dopo che tutti i gentili vi saranno entrati. Ma, appunto per questo, secondo i Padri ed i mistici cristiani, il ruolo del giudaismo post-biblico, fino al giorno della Parusia, sarà ambiguo verso Cristo. Esiste in effetti una forte inquietudine che pervade l’anima ebraica da duemila anni, che è quella di una evidente sete messianica che non accettando Cristo non riesce a trovare tregua. La storia post-biblica di Israele è piena di presunti messia, tutti miseramente falliti, da Bar Kokheba, che capeggiò la tragica rivolta del 132 soffocata nel sangue dalle legioni romane di Adriano, fino a Sabattai Zevi e Jacob Frank rispettivamente nel XVI e nel XVIII secolo ed, oggi, al recentemente defunto Rabbi Schersonn “messia” del gruppo ebraico ultraortodosso dei Lubavitcher. Tutti costoro hanno acceso nell’ebraismo post-biblico infervorate speranze messianiche cui puntualmente sono seguite delusioni cocenti sovente accompagnate da esiti tragici per gli stessi loro seguaci. Sicché, come diceva Dante Lattes, nella sua “Apologia dell’ebraismo”, e come ripetono oggi le migliori intelligenze del rabbinato come Elio Toaff, un po’ alla volta l’ebraismo post-biblico ha finito per convincersi che l’atteso “messia” non è un uomo, neanche un capo politico, ma sarebbe lo stesso Israele, inteso come popolo messianico, “messia collettivo”, deputato a portare al mondo il Dio di Abramo ed in un futuro più o meno lontano ad inaugurare, quando tutti i popoli riconosceranno il primato del Dio di Abramo, ma - si badi bene - alla luce del primato spirituale dell’Israele/Messia, l’era messianica della Pace Universale in terra. Un’esegesi però molto pericolosa per via delle sue possibili ricadute secolari, politiche.

Canzano 6 – Cosa intende dire? Si riferisce al ruolo dello Stato di Israele?

COPERTINO – Non al ruolo dello Stato di Israele, che come tale altro non è che un soggetto politico di diritto internazionale e che ha tutto il diritto di esistere e di poter vivere tranquillamente, ma al modo in cui il fondamentalismo ebraico (perché esiste, benché ignorato dai media occidentali, anche un fondamentalismo ebraico) interpreta tale ruolo. La teologia del “messia collettivo”, cui è connessa l’esegesi dell’esclusività ebraica della Terra Santa (che invece è santa per tutte e tre le fedi abramitiche e non può dunque essere possesso esclusivo di una sola di esse: personalmente sono per l’internazionalizzazione di Gerusalemme), comporta inevitabilmente uno scivolamento dallo spirituale, dal religioso, verso il politico con conseguenze nefaste in termini di reciproca tolleranza e di convivenza pacifica. Il sionismo, in apparenza nato laico, si differenzia dagli altri movimenti di liberazione nazionale proprio perché, nei suoi esponenti sia di destra che di sinistra, da Jabotinsky a Ben Gurion, risente fortemente, e non da oggi, dell’influsso di un certo rabbinato, due nomi: rabbi Kook e suo figlio, che sin dagli anni venti del XX secolo ha intravisto in esso un ignaro strumento dell’adempimento delle promesse messianiche come lette da un certo giudaismo post-biblico, ossia come promessa del ritorno in massa degli ebrei in Palestina per la ricostruzione, al fine di ripetere il culto antico dello sgozzamento sacrificale dell’agnello, dell’abbattuto Tempio di Salomone, ove ora sorge la Moschea di Omar terzo luogo sacro per l’Islam. Una prospettiva intrisa di millenarismo, sostenuta anche dai cosiddetti “cristiano-sionisti” americani, esattamente speculare a quella, analoga, che si va facendo strada in certi settori fondamentalisti dell’islam che sognano l’instaurazione del “califfato universale”. Ora, se le questioni politiche che travagliano la convivenza interconfessionale in Palestina prendono una piega del genere siamo davvero al rischio dello scontro di civiltà tanto auspicato dai neocons americani e dai loro emuli, anche cattolici, italiani ed europei. Da un punto di visto umano auspico che per la Terra Santa sia trovata al più presto una soluzione politica e di equità per assicurare la convivenza, ma da cristiano so bene che la “sete messianica” dei “fratelli maggiori” si placherà solo quando incontreranno Cristo, quando diranno “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore”. Ne sono convinto per l’espressa testimonianza di tutti gli ebrei che nel corso dei secoli hanno fatto individualmente quel passo, da Ratisbonne a Israel Zolli ai fratelli Lehmann e molti altri. Tutti hanno testimoniato di aver ritrovato il vero ebraismo, da essi inquietamente presentito e inutilmente cercato nei testi talmudici e cabalistici, solo in Cristo, solo nel Vangelo, sicché, a ragione, hanno sempre protestato che la loro non è stata una “conversione”, in senso tecnico, ma il raggiungimento del porto promesso, dell’approdo definitivo a cui la loro anima ebraica li spingeva pur nella resistenza dovuta alla precedente “cecità spirituale”. E’ esattamente quel che auspico per tutti i “fratelli maggiori”, per i quali prego ogni giorno affinché ritrovino anche loro il vero ebraismo che è solo quello di Cristo. Mi piace ricordare quanto scriveva Israel Zolli, il rabbino capo di Roma durante l’occupazione nazista, grande biblista e studioso della figura di Gesù nonché grande estimatore di Pio XII per l’opera di soccorso a favore degli ebrei, di cui egli fu testimone, messa in opera da Papa Pacelli (per questo scelse come nome cristiano di battesimo quello di Eugenio in onore di Eugenio Pacelli). Zolli diceva che un momento molto importante nel suo percorso verso Cristo fu quello dell’indignazione che egli, che sognava un sionismo spirituale che facesse secondo le profezie di Gerusalemme una casa di preghiera per tutte le genti, provò nei confronti di quel tipo di rabbinato, sopra ricordato, che cianciava in termini politico-messianici della “home nazionale”. Zolli protestò, inutilmente, che i Profeti biblici hanno sperato nel “Regno” e non in un “regno”, non in una “home”, e, come confidò nelle sue memorie, mentre si spegnevano le sue illusioni sioniste la sua anima ebraica andava rinascendo, si ritrovava, nella fede in Cristo.

Canzano 7 – Molto interessante. Questo però ci porta a chiederci qualcosa circa la pretesa di Verità che è propria di ciascuna e di tutte e tre le religioni monoteistiche. Lei sa che Lessing ha usato in proposito l’immagine dei Tre Anelli…

COPERTINO – La cosiddette leggenda della Tre Anella è, a dire il vero, di origine medioevale. Lessing se ne è appropriato reinterpretandola, se non ricordo male, in senso negativo, asserendo che in fondo Mosé, Cristo e Maometto erano degli impostori. Ma non vorrei, appunto, ricordare male. Quel che invece è sicuro è che, essendo egli un “fratello di loggia”, Lessing abbia usato la favola delle Tre Anella come propaganda del relativismo massonico, quello che fa di tutte le religioni i rami, eguali per valore e messaggio salvifico, convergenti verso una fantomatica Unità delle Religioni o Tradizione Primordiale. Come, invece, dicevo la favola in questione, che racconta di un padre che partendo lascia a ciascuno dei tre figli un anello dicendo loro che solo uno di essi è quello vero e che l’importante è non sapere quale esso sia ma conservare il proprio in attesa del suo ritorno (fuor di metafora: il padre è Dio, i tre anelli sono le tre fedi abramitiche), esprime al meglio lo spirito di tolleranza che perlomeno negli ambienti colti, ma anche nei rapporti culturali, commerciali e politici, l’età medioevale ha conosciuto nei rapporti tra ebrei, cristiani e mussulmani (il che non significa che non vi siano stati anche i momenti di scontro, ma non erano in fondo quelli prevalenti). Cosa dire da un punto di vista cristiano? E’ relativismo quello che la favola in questione esprime? Penso che lo sia nell’interpretazione massonica di Lessing ma non nel clima originario ossia medioevale che l’ha tenuta a battesimo. Un clima nel quale all’assoluto della propria fede, pur nella ricerca di un modus vivendi (che non era necessariamente di tipo “egualitario”) con le altre due, non rinunciavano, e giustamente, né i cristiani, né gli ebrei, né i mussulmani. Da cristiano posso dire solo che sono sicuro che l’anello autentico è quello di Cristo e dico questo perché Egli è la figura centrale nella storia della salvezza anche in ambito ebraico ed in quello islamico. Dell’ambiguo rapporto di repulsione/attrazione degli ebrei verso la figura di Cristo e della loro sicura futura conversione ho già detto. Per quanto riguarda gli islamici, forse essi non sono ancora del tutto consapevoli del mistero di Cristo insito nel Corano. Cristo, ovvero Isa, è nel testo coranico il Verbo di Allah nato dalla Sempre Vergine Maryam e sia Cristo che la Madonna, verso cui l’islam ha una tenera devozione (e se è vero che la devozione alla Madonna è segno di salvezza … lascio su ciò riflettere i protestanti!), non sono presentati nel Corano alla stregua di tutti gli altri esseri umani, come avviene per lo stesso Maometto. Cristo e Maria, nel Corano, sono proclamati immuni dal “morso di Satana”, che è come dire immuni dal peccato originale. Cristo, poi, ha per il Corano una origine speciale, in qualche modo sovrumana, che ne fonda coranicamente parlando la superiorità sullo stesso Maometto e rende difficile, nonostante che l’esegesi islamica non lo ammetta, negare che Cristo non è solo un uomo. Sembra, infatti, che diversi mussulmani si siano convertiti al Cristianesimo proprio attraverso una attenta meditazione dei passi coranici relativi al mistero di Cristo. Il Quale poi, nell’escatologia islamica, ha un ruolo chiave molto simile a quello che ha in quella cristiana. Nel Genesi gli arabi, tra i quali molti secoli dopo comparve Maometto come una sorta di profeta veterotestamentario post-litteram quasi riservato ad essi solo (e difatti sembra che il Profeta non volesse predicare che per i soli arabi), sono i discendenti di Ismaele il figlio che Abramo ebbe con la schiava Agar e che fu salvato dall’angelo del Signore, che nella Bibbia spesso sottende l’intervento diretto di Dio in Persona, nel deserto insieme alla madre, dopo essere stato cacciato dalla gelosia di Sara, moglie legittima del Patriarca (Gen. 16, 7-13). Ismaele pertanto non è nella linea della promessa messianica, che è solo quella di Isacco con il quale Dio stipula l’Alleanza, ma anche a lui, ad Ismaele, Dio fa una promessa (“di lui farò una grande nazione”, Gen. 17, 20-21). Su questi dati anche noi cristiani dobbiamo riflettere e non certamente per asseverare la pretesa islamica di essere il sigillo della Rivelazione, perché tale è solo Cristo che è Pienezza della Verità, ma per cercare di intravvedere in prospettiva trans-storica ed escatologica la realizzazione in atto anche della promessa fatta ad Ismaele: una promessa anch’essa sicuramente finalizzata in direzione cristocentrica, come sarà chiaro alla fine dei tempi. Insomma, come gli ebrei anche gli islamici entreranno un giorno nella Chiesa. Per il momento si tratta solo di aspettare e pregare, ed operare con le buone opere di testimonianza, affinché ebrei ed islamici, benché per la via a loro riservata, giungano a Cristo e tutta la storia della salvezza, finalmente giungendo a conclusione, converga, come divinamente promesso, escatologicamente in Lui.

Canzano 8 – Vecchio Testamento, verità o leggenda dei fatti narrati?

COPERTINO – Si tratta di un falso problema. Quando si ha a che fare con la Scrittura diventa riduzionistico trattarla come un qualsiasi testo antico senza considerarne il carattere innanzitutto rivelatorio e sapienziale. Il che non significa affatto negare all’ausilio del metodo storico, se correttamente usato, un proprio valore. L’importante è non pretendere che la Scrittura si debba ridurre solo al suo contenuto letterale. Il letteralismo introdotto da Lutero è infatti il sottofondo ideologico che vizia l’esegesi storico-critica che voglia pretendere di dire con la mera analisi filologica l’ultima parola sul senso della Scrittura. Del resto bisogna anche evitare l’errore opposto, che porterebbe al fideismo, ossia quello di fare del testo biblico qualcosa di esclusivamente sapienziale e simbolico, ossia senza radicamento nella storia, con il rischio di ridurlo ad una mito o ad una gnosi. Quello esegetico è un aspetto del più vasto problema del corretto rapporto tra fede e ragione. Quel che noi oggi abbiamo sottoforma di testo biblico scritto è la codificazione di antichissime tradizioni orali (nelle culture antiche l’oralità, tramandata con precisi metodi di trasmissione mnemonica tali da garantire l’invarianza essenziale del contenuto, ha sempre preceduto la scrittura). Ma, nel caso della Bibbia, il contenuto del testo si discosta assolutamente ed in modo del tutto unico da tutte le altre culture religiose dell’umanità a base mitico-immanente. Nel testo biblico non ci sono, all’origine del mondo, lotte tra titani e deità o la contrapposizione di “doppi contrari”, non c’è la deificazione magica delle potenze della natura e l’uomo non è in balia dell’arbitrio di déi, emanazioni eoniche di una oscurità abissale non manifestata, dei quali deve rabbonire l’ira magari con sacrifici umani o deve propiziare il favore con offerte rituali anche cruente. In un mondo di magia e di panteismo, la Bibbia, unica, afferma che il sole e la luna non sono deità ma creature. Con questo si apre la strada da un lato all’affermazione della creaturalità, ed alla negazione della divinità, del cosmo e dall’altro al recupero della di una sua “sacralità”, ma per derivazione creaturale e non per auto sussistenza. L’universo, in tal modo può anche essere oggetto di indagine scientifica (se l’universo non è creato ma è un “dio” è evidente che esso non può essere studiato razionalmente perché “magico”) ma al tempo stesso deve essere rispettato come dono del suo Autore. Al di là delle immagini usate, e che cambiano nel corso dei secoli mano a mano che la Rivelazione procede senza per questo cambiare l’essenza del contenuto rivelato (non esiste, ad esempio, un unico racconto della creazione, ma dopo il Genesi, e con immagini diverse, magari più sapienziali, ritroviamo l’idea del cosmo come creazione anche nel libro della Sapienza, nei Salmi e nei Profeti, etc.), il messaggio fondamentale del testo biblico è quello per il quale l’universo ha un inizio e nasce da un atto d’Amore creativo, da un “Fiat” che è Parola, Verbo, Progetto, ed ha un fine che è quello della trasfigurazione gloriosa alla fine dei tempi. Per la Bibbia l’universo è fatto per consentire l’esistenza dell’uomo, ossia è fatto per amore dell’uomo. Ora, questo messaggio, questo contenuto rivelato, è oggi confermato dalla scienza che ha individuato nel cosmo un momento iniziale dal nulla ed una direzione finalizzata alla comparsa della vita intelligente. Il cosiddetto “principio antropico”, nella sua formulazione “debole”, conferma esattamente quanto il testo biblico, con altro linguaggio, in apparenza mitico nel Genesi, più sapienziale e teologico nei testi detti per l’appunto “sapienziali” come Proverbi o i Salmi, ci ha rivelato. Certo il mondo non è stato fatto letteralmente in sette giorni, come pretendono i protestanti fondamentalisti e letteralisti (la Chiesa cattolica ha sempre condannato il “letteralismo”). Quel che invece, con il racconto dei sette giorni, il Genesi vuol dirci è che il ritmo settenario rinvia ad un linguaggio cifrato sapienziale che esprime l’armonia cosmico-matematica di un Progetto nato da una Intelligenza Infinita. Diversi scienziati sono oggi dell’avviso che la descrizione biblica della creazione e quella scientifica dell’origine dell’universo abbiano profonde assonanze quasi si trattasse dello stesso “racconto” secondo linguaggi solo in apparenza distanti ed incomunicabili. Il che non deve farci cadere in un facile ed ingenuo concordismo, anch’esso influenzato dal letteralismo, sul tipo di certo cosiddetto “creazionismo scientifico” di matrice protestante ed americana. L’importante è, però, sempre tenere uniti i due capi dell’unica corda: Sapienza e storicità. Ho detto, si badi, “storicità” e non a caso. Infatti la Rivelazione, poi codificata nella Scrittura e tramandata dalla Tradizione, ha un carattere sia sapienziale che storico. Ma quando parliamo di storia in rapporto alla Scrittura dobbiamo tenere sempre presente che una cosa è la storicità ed un’altra la “storiograficità” nel senso della moderna indagine storiografica. Nella Bibbia, soprattutto nella sue parti più antiche, quel che è prevalente è la “storicità”, l’essere, come si è detto, a differenza delle culture religiose arcaiche a carattere mitico, una Rivelazione che entra nella storia umana. Non ha importanza l’esattezza, appunto, storiografica delle date, dei luoghi, dei tempi, come se si trattasse di un moderno testo di storiografia di una qualche università di storia. Quel che ha importanza è la base storica, che è sicura al di là dell’approssimazione storiografica dei riferimenti, letta però, questa base storica, in una chiave tale da trasmettere il senso teologico e sapienziale degli eventi. Non ha importanza se Abramo provenga effettivamente da Ur dei Caldei o se invece fosse nient’altro che un “hapiru” (da cui pare derivi la parola “ebreo”) ossia un tipico nomade semitico dell’area vicino orientale. L’importante è che il contesto della vocazione di Abramo sia storicamente sostenibile, come appunto è quello biblico. La diatriba tra Caino ed Abele rinvia chiaramente alla lotta atavica tra popolazioni agricolo-sedentarie e popolazioni nomadi-pastorali, ma quel che è importante nel testo biblico è l’evidenziazione dell’esito sanguinoso e fratricida del peccato. Probabilmente il diluvio universale, che è presente quasi fosse un atavico ricordo in tutti i miti antichi, è la memoria di una qualche catastrofe globale, forse dell’esplosione di un “Vei”, come i geologi oggi chiamano un supervulcano di gigantesche dimensioni, avvenuta a Sumatra circa 75.000 anni fa (oggi al posto del supervulcano esploso vi è il lago Toba formatosi nell’antica sede del cratere) e che produsse ininterrotte piogge nonché l’ennesima glaciazione ed una sorta di effetto serra su tutto il pianeta, sicché le carestie che ne seguirono per mancanza di sufficiente luce solare sterminarono per fame quasi l’intera popolazione mondiale dell’epoca (si salvarono poche centinaia di persone, adeguatesi a vivere, dopo aver abbandonato le pianure, nelle zone più montuose). Quel che la Bibbia intende sottolineare con la storia del diluvio è che i mali, anche quelli naturali, derivano dall’abbandono, per l’idolatria magica, del Vero Culto al Dio Trascendente. Nella liturgia cristiana poi il Diluvio è diventato simbolo delle acque rigeneratrici del battesimo, che mondano dal peccato. Il racconto della prova cui Dio sottopone Abramo chiedendogli di sacrificare il suo unico figlio, se teologicamente è figura tipologica del Sacrificio del Figlio Venturo, di Cristo, sulla Croce, storicamente rinvia ad un momento nel quale si iniziava da parte dell’umanità ad abbandonare, sebbene lentamente, il sacrificio umano connesso con i riti propiziatori del paganesimo più antico. Le lotte cruente di Israele con i popoli circumvicini, che spesso scandalizzano, per il fatto che Dio ordina lo “sterminio” dei nemici, anche più di un cattolico tentandolo al marcionismo (ossia al rigetto dell’Antico Testamento in favore del solo Nuovo Testamento), sono l’eco della lotta, che era non solo politica ma anche religiosa, affrontata da Israele



 

 

 

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