IPAZIA
Luigi Copertino
intervista di Giovanna Canzano
Italia Sociale 30.10.2009
… “la stessa Ipazia avrebbe avuto orrore di atei, razionalisti,
anarco-comunisti e pagano-nazisti. Forse si sarebbe trovata più in
sintonia con lo “spinozismo”, fritto e rifritto, di un Odifreddi”…
…“usare l’assassinio di Ipazia per dedurne un potenziale criminogeno o
misogeno del Cristianesimo o della Chiesa è come usare le gesta di
qualche fondamentalista o di qualche terrorista islamico per affermare
che l’Islam sia di per sé fonte di barbarie. O che tale sia l’ebraismo
per via del fatto che esistono tra i sionisti alcuni criminali
responsabili, da ultimo, dello stermino palestinese di Gaza”… (Luigi
Copertino)
Canzano 1 – Ipazia "Agora" (coproduzione spagnola-statunitense), che
dovrebbe narrare la storia di Ipazia... L'ennesimo espediente per dare
addosso al già decadente Cristianesimo, e tra l'altro neanche bisogna
arrovellarsi tanto per capire chi c'è dietro questo film: basta andare a
leggere la biografia dell'attrice protagonista Rachel Weisz.
COPERTINO – Che il Cristianesimo sia decadente è, mi lasci dire senza
offesa, affermazione azzardata sotto il profilo storico-teologico. Il
Cristianesimo è l’adempimento della promessa fatta ad Abramo per la
salvezza di tutte le genti, nessuna esclusa. Una promessa realizzatasi
in Colui che ha affermato di essere prima che Abramo fosse (Gv. 8,58) ed
al Quale spetterà l’ultima parola al termine della storia (come sanno
persino gli islamici). Sicché direi piuttosto che in crisi è l’identità
di fede dei cristiani nell’Occidente post ed anticristiano (altrove
infatti la fede cristiana sta vivendo momenti di grande fervore).
Quell’Occidente fuoriuscito dalla svolta teologica, e politica, del XVI
secolo, iniziata da Lutero, e che si sta chiudendo oggi con
l’implosione della potenza americana ossia della potenza egemonica di
tale Occidente post-cristiano. La stessa compagine ecclesiale (non
dunque la Chiesa nel suo indefettibile fondamento divino) è oggi messa
duramente alla prova. Tutto ciò non sorprende quei cattolici memori del
fatto che ci è stato preannunziato che il cammino della Chiesa nella
storia sarebbe stato, ad immagine del Suo Signore, prima un “ingresso
messianico” e poi un cammino travagliato come un “Calvario” in vista
della “Pasqua”. Pur nella promessa della vittoria finale, quello della
Chiesa nella storia è necessariamente un itinerario di Passione prima
dell’alba della Resurrezione. Diceva sant’Agostino che il cammino
storico della Chiesa si svolge tra le persecuzioni del mondo e le
consolazioni di Dio. Quindi che gli attacchi alla fede si siano negli
ultimi secoli intensificati è cosa scontata e perfettamente
comprensibile in un’ottica teologica. Che, dopo ed insieme a quelle
materiali, siano sopraggiunte anche le aggressioni “spirituali” e che
esse si siano ulteriormente accentuate nel corso del XX secolo, ed in
particolare negli ultimi decenni, è la riprova che quanto a suo tempo
preannunziatoci, “Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà, troverà la Fede
sulla terra?” (Lc. 18,8), sta diventando sempre di più una realtà
palpabile. I Dan Brown, i Corrado Augias, i Mauro Pesce, i Gad Lerner,
gli Umberto Eco, gli Odifreddi oggi si sprecano ma non sono neanche
originali, nel loro anticattolicesimo, perché preceduti dalle
Blawatsky, dai Voltaire, dai Renan, dai Nietzsche e dai Zola. Gli
epigoni di oggi sono soltanto dei ripetitori delle tesi, più o meno
aggiornate, dei loro predecessori. L’unica differenza sta nel fatto che
quanto nel XIX e prima parte del XX secolo era un latrare
pseudo-scientifico di alcune élite intellettuali, oggi è diventato un
latrare di massa. Sul Cristianesimo e sulla Chiesa Cattolica circolano
incredibili menzogne storiche, vere e proprie “leggende nere” (alle
quali non serve affatto contrapporre altrettanto inconsistenti
“leggende rosa”, secondo il metodo di una cattiva apologetica ancora in
uso in certi circoli tradizionalisti). Libri come “Il Nome della rosa”
oppure come “Il Codice da Vinci” (a sua volta plagio de “Il santo
graal” - 1994 - di Michael Baigent, Richard Leigh e Lincoln Henry,
altri tre rivelatori di presunti “segreti esoterici”), sensazionali
pseudo-scoperte di testi gnostici, ampiamente già conosciuti, come il
“Vangelo di Giuda”, lanciato su scala globale dalla potente lobby
editoriale del National Geografic, finiscono per fare presa sulla gente
comune, ignara di seri studi teologici, filosofici e storici. Il film
“Agora”, sulla vicenda di Ipazia, è l’ultimo episodio di questa
sceneggiata. Non a caso abbiamo assistito anche nella fattispecie ad
una vera e propria escalation: pochi mesi fa un documentario in
argomento su La7, nella trasmissione “Atlantide”, subito dopo della
questione si sono impadroniti Odifreddi e l’unione atei e razionalisti,
ora questo film contemporaneamente osannato da anarchici e circoli
neo-pagani, orfani del comunismo e nostalgici del nazismo. Il bello è
che la stessa Ipazia avrebbe avuto orrore di atei, razionalisti,
anarco-comunisti e pagano-nazisti. Forse si sarebbe trovata più in
sintonia con lo “spinozismo”, fritto e rifritto, di un Odifreddi.
Naturalmente fa gioco il fatto che la dotta e bella Ipazia sia stata
vittima di alcuni fanatici che si fregiavano, quanto degnamente lo si è
visto, del nome cristiano. Ma usare l’assassinio di Ipazia per dedurne
un potenziale criminogeno o misogeno del Cristianesimo o della Chiesa è
come usare le gesta di qualche fondamentalista o di qualche terrorista
islamico per affermare che l’Islam sia di per sé fonte di barbarie. O
che tale sia l’ebraismo per via del fatto che esistono tra i sionisti
alcuni criminali responsabili, da ultimo, dello stermino palestinese di
Gaza. Personalmente mi rifiuto di leggere le cose con queste categorie
generiche, idiote, astratte, che svelano in chi le fa proprie soltanto
ignoranza, nella migliore delle ipotesi, o malafede, nella peggiore.
Recentemente, in tempi come i nostri ossessionati dal pericolo del
fondamentalismo islamico, si è riaccesa anche sui media una polemica
sulle responsabilità di parte mussulmana nella distruzione nel VII
secolo della biblioteca di Alessandria, o di ciò che di essa era stato
ricostruito. La storia è una cosa complessa e non si può certo da
polemiche come questa dedurre un qualche giudizio di valore circa la
supposta inciviltà dell’islam, perché altrimenti non sapremmo dove
mettere Avicenna o Averroé o ancora la mistica sufi (al di là di
qualsiasi loro valutazione intrinseca). Così pure il fatto che parte dei
cristiani (attenzione a non generalizzare: “parte dei cristiani” e non
“i cristiani”) dei primi secoli non seppero essere degni di tal nome e
si lasciarono andare a vendette contro i pagani, che da parte loro
avevano ferocemente perseguitato i primi (anche su istigazione delle
sinagoghe diffuse per tutto l’impero), non può far faziosamente
concludere su una supposta inciviltà del Cristianesimo: altrimenti, in
tal caso, non sapremmo dove mettere Agostino, Francesco, Tommaso
d’Aquino, la grande mistica cristiana, etc.
Canzano 2 – Ma quali furono i contorni storici della vicenda tragica di Ipazia?
COPERTINO – La povera Ipazia, il cui ritratto campeggia nell’affresco
di Raffaello “La Scuola di Atene” che si trova - guarda caso - senza
alcun problema di censura nei Musei vaticani, rimase vittima del
fanatismo politico che usava nascondersi dietro pretesti teologici in
tempi nei quali il seme della distinzione tra Fede e politica (“Date a
Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”: che però non
significa opposizione di fede e politica) non era ancora giunto a piena
maturazione. La Chiesa ha sempre sofferto quando è rimasta, magari suo
malgrado, coinvolta nelle lotte politiche del momento, eppure, dato
che Essa legge gli eventi sub specie aeternitatis, è sempre riuscita a
limitare il peso condizionante della politica e, siccome Dio sa
scrivere dritto sulle righe tracciate storte dagli uomini, è sempre
riuscita anche a porre rimedio agli errori umani dei suoi figli.
Ipazia, figlia del filosofo e matematico plotiniano Teone, non era solo
una grande esponente del neoplatonismo ma era diventata in Alessandria
una sorta di eminenza grigia dei locali capi politici, che,
ammirandola per la sua saggezza filosofica, praticamente pendevano
dalle sue labbra. La sua filosofia poneva senza dubbio problemi nei
suoi rapporti con la comunità cristiana locale che era già a sua volta
in cattivi rapporti con gli ebrei di Alessandria. Le violenze tra le
due comunità, cristiana ed ebraica, erano frequenti e reciproche. Nel
414 gli ebrei di Alessandria fecero strage dei cristiani provocando la
reazione del Vescovo Cirillo che li cacciò dalla città. I cristiani,
che stavano diventando la forza religiosa egemone nell’orbe romano, si
trovavano in Alessandria stretti da una sorta di, non dichiarata,
alleanza politica tra ebrei ed ellenisti pagani. Una situazione
difficile da gestire, in un momento nel quale l’autorità imperiale,
spesso ingerendosi nelle cose ecclesiali, spingeva, allo scopo di
rafforzare il proprio potere, affinché i vescovi si occupassero
assiduamente, e con metodi non sempre consoni alla “missio” cristiana,
della conversione di ebrei e pagani. Oltretutto in quel momento la
comunità cristiana era alle prese con la disputava teologica innescata
da Nestorio, il Patriarca di Costantinopoli, al quale si era opposto
proprio Cirillo, vescovo di Alessandria e uno tra i più grandi Padri
della Chiesa, che riuscì, prima nel Concilio di Efeso del 431 e poi nel
Concilio di Calcedonia del 451, a far riaffermare la Fede nella
Divino-umanità di Cristo che la teologia di Nestorio aveva sminuito
fino ad implicitamente negarla (a dimostrazione della sua tolleranza ed
a confutazione di certe leggende nere sul suo conto, voglio ricordare
che Cirillo prima di chiedere la condanna ecclesiale di Nestorio tentò
ripetutamente di recuperarlo e, dopo la condanna, si prodigò con
successo per ricostruire la comunione ecclesiale con Costantinopoli ed
Antioca, sedi principali del nestorianesimo). All’origine dell’accusa,
mai provata e tuttora affermata, come nel caso del film in questione,
senza prove, rivolta a Cirillo di essere stato il mandante
dell’assassinio di Ipazia, vi è il conflitto teologico tra il
calunniato vescovo di Alessandria e Nestorio. Furono gli avversari
ariani (i seguaci dell’eretico Ario) e nestoriani di Cirillo ad accusare
il Vescovo di aver ordito l’assassinio della filosofa. Una diceria
senza alcun sicuro fondamento storico, a parte la non proprio imparziale
fonte costituita dai libelli dei nemici nestoriani ed ariani del
Vescovo, come Socrate Scolastico e Filostorgio. Diceria altamente
sospetta ripresa, a distanza di quasi un secolo dai fatti, dal filosofo
pagano Damascio per infine giungere fino al XVIII secolo quando il
protestante, accesamente anticattolico, Edward Gibbon iniziò a costruire
il mito della “martire pagana” che ora il film “Agora” ripropone per
lo scandalo degli schiocchi e l’astuzia degli infingardi. Gli
accusatori odierni di Cirillo si appigliano al fatto che ad uccidere
Ipazia sarebbe stato un gruppo di “parabalanoi”, che erano una sorta di
“barellieri” ossia una milizia ecclesiastica, guidati da un certo
Pietro. Ipazia, che come detto era assurta a consulente politica in un
clima politicamente surriscaldato, fu uccisa nel marzo del 415, appena
un anno dopo i torbidi del 414 ed appena tre anni dopo che Cirillo era
diventato vescovo di Alessandria. Come si è detto, il clima nei
rapporti tra cristiani ed ebrei non era, ad Alessandria, in quel
momento dei più sereni e ciascuna delle due comunità si era organizzata
per l’auto-difesa. Ora, come accade spesso in situazioni del genere,
dalla difesa si può facilmente passare all’attacco con i conseguenti
eccessi, soprattutto se all’interno di una comunità approfittano dei
torbidi gli elementi più zelanti fino al fanatismo. Fanatici e
fondamentalisti esistono, purtroppo, in qualsiasi gruppo umano, ad ogni
latitudine ed in ogni epoca. Inutile scandalizzarsi o usare lo
scandalo per generalizzare odiose e pretestuose accuse contro questo o
quel gruppo. Quando un paio di anni fa, Ariel Toaff ha creduto di aver
provato la responsabilità di alcuni fanatici ebrei nell’assassinio del
povero Simonino da Trento abbiamo assistito alla reazione indignata
della comunità ebraica: reazione incomprensibile se si parte dalla
Sapienza cristiana che nel suo realismo sa essere la natura umana, di
tutti e di qualunque uomo, cristiano, ebreo, islamico, indù, europeo,
americano, africano, ferita dal peccato originale e quindi
costantemente bisognosa di misericordia e redenzione, che da sola non
può darsi. Vi è poi l’altra leggenda, la cui fonte sono ancora una
volta gli scritti degli avversari nestoriani ed ariani di Cirillo e lo
scritto tardivo di Damascio, circa la presunta invidia nutrita dal
Vescovo alessandrino per la filosofa “femmina” che, con la sua grande
cultura, oscurava il suo prestigio di teologo “maschio”. Una leggenda,
questa, poi, in tempi più recenti, ripresa, anche per l’influsso
dell’opera di Silvia Ronchey, in chiave femminista: la povera donna
vittima del cruento potere maschio e, in quanto ecclesiale, pure
misogino. Circa la misoginia della Chiesa basta considerare, per
smontare l’assurdo, l’iperdulia alla Vergine Maria, il grandissimo
numero di donne canonizzate e la notevole presenza femminile tra i
“Dottori della Chiesa” e nella mistica cristiana. Per quanto riguarda
la pretesa invidia di Cirillo verso Ipazia, chi sostiene questa tesi
non tiene conto del fatto che il Vescovo di Alessandria era egli stesso
uno dei più noti ed ammirati teologi e filosofi del tempo, sicché non
si capisce proprio da dove sarebbe nata la sua invidia per la collega.
Sarebbe come dire che un grande teologo quale Joseph Ratzinger sia oggi
invidioso di una qualche colta docente di filosofia di qualche
notorietà. Del tutto risibile! In realtà, nel “santino” biografico di
Ipazia elaborato da Damascio traspare un elemento tipico di un certo
ambiente culturale del tempo, ossia il cosiddetto “femminino sacro”
ovvero una spiritualità che faceva del sacro qualcosa di eminentemente
femminile. Nel femminismo moderno ritroviamo il retaggio di tale
sacralità al femminile. Esisteva poi, in complementare sintonia con tale
spiritualità, quella che invece insisteva sulla essenziale
“mascolinità” del sacro e svalutava in termini negativi il sesso
femminile. Ne troviamo esempi chiari proprio nel cosiddetto “Vangelo di
Giuda”. Ma entrambe queste, in apparenza opposte ma in effetti
complementari, spiritualità appartengono ad un orizzonte religioso
intriso di gnosi e nulla hanno a che fare con la Rivelazione
ebraico-cristiana, sicché usarle, traendole da Damascio o di chi altri,
per costruire la leggenda del vescovo misogeno ed invidioso della colta
filosofa è storicamente del tutto arbitrario perché è un’operazione
evidentemente viziata da un presupposto “ideologico”. Senza poi contare
che la liberazione della donna ha inizio dall’episodio evangelico
della, mancata, lapidazione dell’adultera (“Chi tra voi è senza peccato
scagli la prima pietra”). Certamente il seme lì gettato ha dovuto
aspettare diversi secoli per giungere a maturazione ma è indubbio che
senza Cristo la donna sarebbe rimasta, o tornerebbe ad essere, oggetto
matrimoniale di compravendita o comunque di mercificazione (e mi
riferisco, oggi, anche a quella mediatica e pornografica).
Canzano 3 – Perché la Chiesa cattolica non accettava la filosofia di Ipazia?
COPERTINO – Non è questione di accettazione o meno. Il diffondersi
della fede cristiana nell’orbe romano comportò anche l’incontro con la
grande cultura ellenistica e dunque con la filosofia platonica e
neoplatonica che ne costituiva, nei primi secoli cristiani, il nerbo
principale. Incontro testimoniato ad iniziare dall’episodio del
discorso di Paolo ai filosofi dell’aeropago (“areopagita” fu non a caso
detto quell’ignoto autore cristiano del VI secolo - ma il Turolla ne
retrodata le opere al II secolo -, iniziatore della teologia mistica,
chiamato Dionigi). In realtà l’incontro tra Fede biblica e Logos
ellenistico, tra Gerusalemme ed Atene, ebbe inizio, come non si stanca
di ripetere Benedetto XVI, molto prima di Cristo, a partire da Mosé
(l’“Io sono Colui che sono” di Esodo 3,14 è rivelazione contemporanea
all’inizio della ricerca ontologica, ossia alla ricerca dell’Essere
Primo, da parte dei filosofi dell’antica Grecia) e trovò il suo
provvidenziale momento culminante nel I secolo avanti Cristo con la
traduzione in greco della Bibbia, nella versione cosiddetta dei
Settanta (il testo masoretico, ossia la vocalizzazione della versione
ebraica, una versione che in tal modo finiva per discostarsi da quella
che fino a quel momento era stata ritenuta sia dai cristiani che dagli
ebrei, pur nella traduzione greca, l’autentico testo della Scrittura, è
solo del I-II secolo dopo Cristo). Dunque la fede cristiana, che è il
vero adempimento dell’ebraismo e delle promesse fatte ad Abramo, iniziò
il suo cammino storico incontrando, sulla scia di un percorso già
comunque in atto da secoli, il mondo filosofico ellenistico. Questo
pose al Cristianesimo da un lato la necessità di calare la fede nella
cultura ellenistica e dall’altro la necessità di selezionare,
purificare, questa cultura in ordine a quanto in essa, a causa del suo
(uso il termine in senso lato) “panteismo”, non poteva affatto
conciliarsi con la Rivelazione ebraico-cristiana. La grande filosofia
pagano-ellenistica aveva sicuramente avuto intuizioni pre-cristiane
fondamentali, come ad esempio la categoria della “analogia ontologica”,
ossia della “partecipazione” del mondo sensibile al mondo
sovrasensibile, che Platone introdusse ed Aristotele rielaborò, ma non
poteva andare oltre queste intuizioni perché, avulsa dalla Rivelazione
biblica, non possedeva la nozione della creaturalità del cosmo. Da qui
il tendenziale ed inevitabile “panteismo” della filosofia ellenistica
che, nella convinzione filosofica dell’eternità del mondo, finiva per
far coincidere il “divino” con il mondo: o meglio, finiva per fare del
mondo un riflesso o una emanazione di un’“anima mundi”, di un “motore
immobile”, che però non era concepito nei termini della trascendenza
ebraico-cristiana ma in quelli, potremmo dire con termine oggi molto
usato, e rivalutato in ambito scientifico post-determinista, del
“monismo” o “dell’“olismo”. Il che implica, di conseguenza,
l’impersonalità di questo “divino” nascosto dietro l’illusorietà del
cosmo. Non a caso Platone nel mito della caverna svaluta ampiamente il
mondo reale in favore delle idee iperuraniche. In questo vi sono
evidenti echi di un atteggiamento che potremmo definire in senso lato
“gnostico”. Ovvero la negazione di ogni valore e consistenza alla
creazione, il ritenere cioè la creazione, in quanto opera di un
malvagio demiurgo, responsabile della frammentazione dell’unità
impersonale originaria, essenzialmente qualcosa di poco positivo, se
non addirittura, nelle forme più radicali di tale posizione filosofica,
qualcosa di malvagio. Si badi bene che questi concetti ritornano nel
corso dei secoli: li ritroviamo, sebbene declinati in forme diverse a
seconda dei contesti, ad esempio nel catarismo medioevale con il suo
odio, fino al suicidio per inedia ed alla pratica infeconda della
sessualità, per il corpo, per la carne. Anche il “panteismo”
ellenistico sarà riproposto attraverso i secoli: ad esempio, nella
forma dell’ontologismo soggettivistico, da Spinoza, Cartesio, Kant e
tutto l’idealismo ottocentesco. E tuttavia, come detto, i Padri della
Chiesa si adoperarono in un grande sforzo per salvare ciò che di
grandiosamente pre-cristiano l’ellenismo aveva intuito. E’ stato,
checché ne dicano i detrattori, il Cristianesimo a salvare il meglio
dell’ellenismo ed a tramandarcelo. E lo sforzo dei Padri della Chiesa
riuscì in pieno ponendo la basi della grande stagione della teologia
medievale e dell’unione tra Fides et Ratio che è andata poi in frantumi
con Lutero. Ma quello sforzo non fu senza polemiche e battaglie
teologiche e filosofiche, soprattutto con i rappresentanti di quel
monismo pagano che era per l’appunto il neoplatonismo, Plotino, Proclo,
Giamblico e la stessa Ipazia. Di quest’ultima sappiamo molto poco e
quel poco non direttamente attraverso le sue opere, che non ci sono
pervenute, ma attraverso quanto di esse è possibile ricostruire da quel
che, circa il suo pensiero, ci dicono un suo allievo, Sinesio, ed il
già nominato, e sospetto per faziosità partigiana, Damascio di Damasco,
anch’egli filosofo neoplatonico. Il carattere che abbiamo definito
latamente “gnostico” del neoplatonismo trapela anche nel caso di Ipazia
da un episodio che proprio Damascio ci tramanda. Si racconta che un
discepolo si innamorò della colta ma anche, dicono, bellissima Ipazia.
Costei un giorno si presentò al suo spasimante mostrandogli un panno
imbrattato di mestruo femminile e gli disse: “Questo dunque ami, o
giovane, niente di bello!”. Qui è evidente quella svalutazione della
persona umana a cui conduceva il neoplatonismo che annetteva importanza,
anche ai fini della salvezza, soltanto all’anima e disprezzava il
corpo come impuro in quanto materiale. La Fede ebraico-cristiana nella
Divino-umanità di Cristo e nella resurrezione della carne, invece,
comportava un annuncio di salvezza integrale dell’uomo, spirito, anima e
corpo, che pertanto si scontrava con il limite gnostico,
“spiritualista”, del neoplatonismo. Per la Rivelazione ebraico-cristiana
l’uomo è Imago Dei sicché anche il suo corpo, non solo l’anima, è
Tempio dello Spirito Santo. Il corpo umano non è impuro, come nella
concezione neoplatonica, ma è cosa buona perché creato da Dio. Tutta la
creazione è buona e riflette l’Amore Infinito del suo Autore. Per il
Cristianesimo, a differenza del neoplatonismo, l’uomo riflette la
perfezione e la bellezza del Verbo non solo nell’anima ma anche nel
corpo ed è per questo che il Logos ha assunto integralmente la natura
umana, spirito, anima e corpo, si è incarnato. Ora si faccia attenzione a
quali conseguenze avrebbe portato una eventuale vittoria del
neoplatonismo. Il disprezzo del corpo porta inevitabilmente
all’indifferenza verso la sofferenza umana. Le gnosi, per quanto
sublimi, come il neoplatonismo, inducono ad evitare con orrore ciò che è
legato al corporeo, sia la fecondità sessuale sia la carità verso i
poveri ed i sofferenti. In una prospettiva neoplatonica non ha alcun
senso preoccuparsi delle sofferenze umane perché esse sono solo il
risultato della “caduta” dell’anima nella materia oscura ed impura. In
tale prospettiva l’unico atteggiamento sensato è rinnegare la corporeità
per astrarre l’anima e riportarla alla fusione nell’Anima Mundi.
Insomma il neoplatonismo, come del resto le grandi religioni asiatiche
per molti versi ad esso simili, non conoscono la kenosi di Dio, il
piegarsi amorevole di Dio sulla creatura sofferente per salvarla
integralmente e dunque non conoscono, di conseguenza, la dimensione
della Carità e della Misericordia. Dimensione della Carità che è,
invece, il dono, tra i più preziosi, che la Rivelazione
ebraico-cristiana ha fatto all’umanità, benché questa oggi, ingrata, non
sembra più tenerla un gran che in conto. Se si fosse seguita la via
neoplatonica di Ipazia non avremmo avuto la svolta verso i deboli, i
sofferenti ed i poveri che solo il Cristianesimo ha introdotto nella
storia. Non avremmo avuto gli ospedali che, insieme alle università,
sono frutto del medioevo cristiano. Non avremmo avuto la grande ed
inesauribile fonte della carità e della misericordia testimoniata da
centinaia di santi e di opere ed iniziative materiali, e sociali, nate
nell’alveo cristiano. Non avremmo avuto neanche quelle eresie
(anti)cristiane che sono il liberalismo e il socialismo. In India, ad
esempio, dove la tradizionale cultura locale indù e buddista ha, come
detto, aspetti religiosi e filosofici per certi versi molto simili a
quelli del neoplatonismo antico, è stato solo con l’arrivo del
Cristianesimo, un grandissimo nome per tutti Madre Teresa di Calcutta,
che anche i poveri, i paria, i senza casta, i reietti, i dannati della
terra, hanno iniziato a conoscere quell’Amore capace di alleviare le
loro sofferenze e di restituire loro la perduta dignità. E di questo che
dovrebbero tenere conto certi occidentali innamorati dell’estremo
oriente, sul tipo di Tiziano Terzani che, ricordo di aver letto di
recente, polemizzava con il parroco del suo paese proprio a proposito
della valorizzazione cristiana del corpo. Ma, come detto, ciononostante
la Fede ebraico-cristiana non fu affatto fondamentalista nei confronti
dell’avversario neoplatonico (Sant’Agostino, come tutti i Padri della
Chiesa, aveva una formazione culturale platonica) ma seppe di esso
recuperare e far propri quegli elementi di verità, quelle intuizioni
pre-cristiane, che pur esso possedeva, purificandoli ed integrandoli,
alla luce della Rivelazione, nell’ambito della Fede. Non a caso i Padri
della Chiesa parlavano, con riferimento al pensiero dei grandi classici
dell’ellenismo, dei “semina Verbi”, della “preparatio evangelica” e
della “propaideia Christoù”. Sinesio, l’allievo di Ipazia, tramite il
quale conosciamo qualcosa del pensiero della grande filosofa, si
convertì alla Fede cristiana e divenne vescovo di Cirene, pur
continuando a coltivare la memoria della maestra. Ma, dopo la
conversione, egli coltivò quella memoria da cristiano che era riuscito a
trovare la via invano cercata dalla maestra. Sinesio, magari anche
grazie a qualche intuizione di Ipazia, si convinse che quella Sapienza
che i filosofi cercavano a tentoni, e che nonostante la loro grandissima
statura umana avevano solo intuito, si era incarnata, si era resa,
anti-gnosticamente, toccabile da mani umane, in Cristo Gesù. Ancora nel
XX secolo è stato un altro grande convertito, dal socialismo, al
Cristianesimo, Charles Peguy, a cantare le lodi di Ipazia, esaltandone
la fedeltà alla filosofia neoplatonica. Da parte nostra non possiamo che
rammaricarci che la bella e colta Ipazia non abbia saputo incontrare,
come Agostino, già qui sulla terra (perché l’al di là è cosa che
lasciamo all’insondabile Mistero dell’Amore di Cristo), quella Sapienza
Incarnata che lei cercava nelle sfere celesti dell’iperuranio. Sarebbe
stata certamente un grande “Dottore della Chiesa”, un Agostino o un
Origene donna.
Canzano 4 – Perché un film con una attrice protagonista ed uno staff
con rilevante presenza ebraica? Rachel Weisz è l’attrice che in “Agora”
impersonifica Ipazia. Il suo cognome è ungherese, ma di origine
ebraica. Si scrive Weisz e si pronuncia Vais, che in inglese vuol dire
vizio (si scrive vice). Ma il fatto curioso è che durante gli studi a
Cambridge, Rachel è stata compagna di corso di un ragazzo con un
cognome strano quasi quanto il suo, tale Chris Weitz che poi, parecchi
anni dopo, l'avrebbe diretta nella commedia About a boy insieme al
fratello Paul. Ma queste sono solo coincidenze, gli strani casi della
vita. E la vita di Rachel Weisz inizia a Londra, il 7 marzo 1971.
Figlia di un medico ungherese con la passione per le invenzioni e di
una psicoanalista viennese, la Weisz a quattordici anni comincia a
posare come modella, poi si avvicina al teatro ...
COPERTINO – Apprendo da lei, in questo momento, quali sarebbero le
origini etniche e familiari dell’attrice che interpreta nel film
Ipazia. Personalmente non credo che tali origini spieghino il fatto che
la Weisz abbia accettato la parte. Cristianamente con san Paolo
affermo che “non c’è più né giudeo né greco” e quindi rifuggo da
qualsiasi messaggio che ammicca al razzismo o anche solo all’etnicismo.
Chiunque se ne faccia latore: giudeo o greco. Se invece vogliamo
chiederci quali siano le “forze” che ispirano e finanziano certi film,
il discorso può assumere contorni più verosimili. Ancora con san Paolo
potremmo in tal caso parlare degli “spiriti che sono nell’aria” o,
con terminologia più moderna, degli état d’esprit e dei loro
fabbricatori e propagatori mediatici. Lei certamente ricorderà Louis
Pauwels autore anni fa, con l’esoterista Jacques Bergier, di un
discusso best seller dal titolo “Il mattino dei maghi”, che conteneva
tra l’altro un’accurata analisi sulle radici occultistiche
dell’ideologia nazista diventata poi l’antesignana di successivi ed
importanti indagini storiche e politiche su questi aspetti come dire
“nascosti” della storia (penso, per fare un solo esempio, al testo di
Giorgio Galli “Hitler ed il nazismo magico”). Pauwels non faceva
mistero della sua appartenenza alla destra radicale e neopagana. Non a
caso contribuì molto al lancio editoriale, nei salotti buoni della
Francia giscardiana, di Alain de Benoist, il capofila della cosiddetta
Nouvelle Droite, un gruppo intellettuale che negli anni ’80,
ripropose, in modalità aggiornata, una ideologia nicciano-dumeziliana
che voleva essere nelle sue intenzioni il paganesimo adatto ai tempi
post-moderni. Ebbene, a seguito di un incidente cui conseguì una
esperienza di tipo mistico, sulla quale però ha sempre mantenuto uno
stretto riserbo, Pauwels, con grande scandalo della Parigi che conta
finanziariamente e culturalmente, si convertì al Cattolicesimo. Un
percorso molto simile, anche quanto ad esperienza mistica, a quello di
un altro noto intellettuale d’oltralpe, di origini ebree e
protestanti, con un padre fondatore del Partito Comunista Francese, il
giornalista, anch’egli come il padre ateo e comunista, André
Frossard. Intervistato da Vittorio Messori (“Inchiesta sul
Cristianesimo”, Mondadori, 1993), Louis Pauwels sorprese il suo
interlocutore affermando senza esitare l’esistenza, sono testuali sue
parole, di “un complotto mondiale di forze anticristiane che mirano ad
indebolire la fede dei cattolici”. Ed al Messori che, sorpreso,
tentava di fargli notare che la dietrologia è sempre pericolosa e poco
credibile, Pauwels rispondeva seccamente: “Stia a sentire: sono stato
anch’io, e per tutta la vita, un nemico del cristianesimo, della
Chiesa. Mi si può credere se parlo di una congiura organizzata da
forze potenti che tramano nell’ombra. Lo dico a ragion veduta. Non
aggiungo altro. Lei sa qualcosa del mio passato, saprà capire. Ora che
la verità mi è stata donata, voglio dedicare tutto il tempo che mi
resta a difenderla dai suoi nemici esterni ed interni, questa vecchia,
meravigliosa Catholica.”. Le ho citato questo passaggio
dell’intervista a Pauwels perché voglio evidenziare che non è tanto un
problema etnico il fatto che alcuni con mezzi di ogni genere, compresa
la cinematografia, tentino di spargere menzogne e pregiudizi contro
la Rivelazione ebraico-cristiana e la Chiesa, quanto appunto un
problema di “spiritualità” o se vuole di “controspiritualità”. Di
“spiriti dell’aria”, di “état d’esprit”, che hanno a loro disposizione
ingenti fonti finanziarie e incontenibili strumenti di influenza
mediatica e psicologica sulle masse, a livello globale.
Piuttosto mi pare più significativa, rispetto all’ebraicità della
Weisz, la dichiarata omosessualità ed il dichiarato filo-zapaterismo
del regista del film, lo spagnolo Alejandro Amenàbar, perché mi pare
poco credibile affermare che tali fatti personali non abbiamo avuto il
loro influsso nell’anticattolicesimo propugnato dal film.
Canzano 5 – Resta il fatto che però in questi ambienti anticristiani la
presenza ebraica è rilevante. Perché mai? Quale è il ruolo di Israele
in una lettura teologica della storia e perché l’ebraismo non ha
accettato Gesù come Figlio di Dio e Messia?
COPERTINO – La presenza ebraica negli ambienti anticristiani non è
superiore a quella di altro tipo o origine. Del resto è un errore
valutare il mondo ebraico come un unicum. C’è un proverbio che dice più
o meno “due ebrei e tre opinioni”. Le faccio l’esempio della
questione della canonizzazione di Pio XII (che personalmente auspico
ed al più presto). Mentre certi settori dell’ebraismo, anche italiano
(penso, ad esempio, al rabbino Riccardo Di segni, uomo molto
pregiudizialmente prevenuto verso la Chiesa, checché ne pensino certi
prelati), sono ferocemente contro tale canonizzazione, ed ingerendosi
di cose che non li riguardano, si oppongono ad essa, anche perché
ignoranti delle acquisizione storiografiche a favore di Pio XII che
non era affatto il “papa di Hitler” ma l’unico vero suo oppositore
nell’Europa del tempo, altri settori del mondo ebraico, in particolare
(benché sembri strano a dirsi) americano, sono invece assolutamente
favorevoli a Pio XII “santo subito”. Come del resto lo era il mondo
ebraico dell’immediato dopoguerra, consapevole dell’operato del Papa
in suo favore negli anni tragici della guerra, che rivolgeva a Papa
Pacelli pubbliche espressioni di grande gratitudine. Personalmente
rifuggo da ogni generalizzazione. E ciò deve valere per gli ebrei come
per gli islamici o per i cristiani, o per qualsiasi altro gruppo
umano. Bisogna sempre distinguere, saper cogliere le diverse sfumature
e mai fare di ogni erba un fascio. Anche nelle spinose vicende
attuali non bisogna mai dimenticare che se da una parte ci sono i
sionisti che prostituiscono il Dio di Abramo alla violenza politica
(ma anche tra essi non bisogna escludere la presenza di persone di
sana coscienza, come ad esempio una Livia Rokach), dall’altra ci sono
gruppi del rabbinato come i Neturei Karta o i Rabbis for Human Rights
che si adoperano anche materialmente e con ammirevole spirito di
carità verso le sofferenze dei palestinesi. Del resto, si dimentica
sempre, d’altro canto, che se Hamas ed Hezbollah sono anche milizie
armate hanno però messo in piedi una vera e propria rete di assistenza
sociale per le popolazioni di Gaza e dei territori occupati vittime
della guerra: e si badi non solo islamiche ma anche cristiane. Come
pure, del resto, le chiese e le organizzazione cristiane libanesi
furono in prima linea, nel 2006, durante l’aggressione israeliana al
Libano, nel soccorrere i loro fratelli mussulmani aprendo loro le
porte degli istituti cristiani. Ecco, è necessario sempre approfondire
le questioni e non usare mai l’indegna arma, tribale ed arcaica,
della colpa collettiva, né contro gli ebrei, né contro i cristiani, né
contro i mussulmani. Neanche, e lo dico ai “fratelli maggiori”,
contro i tedeschi, che a loro volta hanno duramente sofferto (a circa
due milioni ammontano le vittime civili tedesco-orientali durante
l’avanzata dell’armata rossa, senza dimenticare le vittime di
quell’odioso crimine contro l’umanità che fu la barbara distruzione
angloamericana di Desdra).
Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, la risposta non
può che sfiorare il “mistero”. Israele è stato il popolo scelto dal
Dio trascendente per rivelare Sé stesso ad un mondo caduto, a causa del
peccato originale, nell’idolatria pagana, nell’immanentismo
panteistico, e per portare la salvezza a tutti i popoli. Ma Israele, lo
testimonia ampiamente la sua storia veterotestamentaria, non sempre è
rimasto fedele, nonostante i richiami dei profeti, al Dio della
Rivelazione. Il fatto è che portare la responsabilità di un Deposito
così grande come la Rivelazione non è cosa semplice e la tentazione
maggiore è quella di “mondanizzare” la Promessa, di iniziare ad
interpretare il proprio ruolo in termini autoreferenziali ponendosi al
centro della storia senza valutare a fondo se effettivamente è questa
la volontà di Dio. Da qui ad iniziare a pensare al Messia come ad un
glorioso capo politico, ad un invincibile condottiero, che avrebbe
liberato Israele dalla soggezione ai gentili e che lo avrebbe innalzato
al di sopra di essi, il passo, l’ingannevole passo, è facile. E si
badi: è anche un passo umanamente comprensibile, tanto che
nell’episodio di Mc. 10, 35-45, quando Giacomo e Giovanni chiedono a
Cristo di poter sedere al suo fianco, l’uno a destra e l’altro a
sinistra, nel Regno, ottenendone lo scandalo degli altri discepoli
invidiosi ed il rimprovero di Gesù, i due “ambiziosi” discepoli
dimostrano di ragionare esattamente secondo il cliché prevalente tra
gli ebrei del loro tempo, quello che pensava al “Regno” come ad una
sorta di teocrazia terrena. Ecco perché quel tipo di ebraismo, così
esegeticamente fuori strada, non ha riconosciuto in Cristo, che diceva
“il mio Regno non è di questo mondo”, l’atteso Messia, da esso
immaginato come capo politico. Uno scandalo, poi, un Messia che muore
in Croce come un malfattore (e questo sia di monito a coloro che
pensano a Cristo come ad un pover’uomo “divinizzato”, secondo gli
schemi della mitologia pagana, dai suoi discepoli: mai un ebreo, e gli
apostoli erano tutti profondamente ebrei, avrebbe accettato la
Divino-umanità di un uomo se non avesse, come dice Giovanni evangelista,
“visto con i propri occhi e toccato con le proprie mani”).
L’adempimento dell’ebraismo veterotestamentario è solo il Cristianesimo.
Il Cristianesimo è l’unico vero ed autentico ebraismo, che giunge a
compimento storico nel momento in cui si universalizza: è stato Cristo,
e non Israele, checché ne dicano i rabbini oggi, a portare il Dio di
Abramo a tutte le genti. Se quel Dio fosse rimasto, come nell’esegesi
rabbinica, il Dio di un solo popolo, benché votato ad una missione
universale e per questo destinato a soffrire, non sarebbe mai diventato
il Dio di tutte le genti. Questo è fuori discussione perché
oggettivamente testimoniato dalla storia: basta guardarsi attorno e
verificare chi ha fatto entrare le genti nell’Alleanza con il Dio di
Abramo, se Cristo o l’Israele post-biblico. Il giudaismo post-biblico,
che continua sulla strada esegeticamente errata che era prevalsa tra
gli ebrei ai tempi di Cristo, non è il vero ebraismo: so bene che dire
questo non è affatto “ecumenicamente corretto” ma è ineludibile per
un cristiano che sa che Cristo è la pietra scartata dai costruttori
del Tempio di Dio, ossia dagli israeliti, e divenuta testata d’angolo
di quel Tempio ossia della Chiesa, intesa come continuazione del Vero
Israele, nel quale sono entrati, stanno entrando, tutti i popoli.
“Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta”, ammonisce Cristo in
Lc. 13, 35, “fino al tempo in cui direte: Benedetto Colui che viene
nel nome del Signore!”. Alla luce di questo insegnamento profetico di
Cristo, san Paolo, nel capitolo IX della Lettera ai Romani, afferma
che gli israeliti sono attualmente rami recisi dall’Olivo Santo di
Israele, con ciò implicitamente facendo intendere che il giudaismo
post-biblico non è più, temporaneamente, nell’alveo della Rivelazione,
è come sospeso in atteso che, cadendo loro la benda che da soli si
sono posti sugli occhi dello spirito, i nostri “fratelli maggiori”
entreranno in massa nella Chiesa, ossia in termini paolini saranno
reinnestati nell’Olivo Santo, riconoscendo Cristo e finalmente
rinunciando alla loro mondana pretesa di costituire, dopo e senza
Cristo, una porzione spiritualmente speciale dell’umanità. Non bisogna
però dimenticare che nello stesso passo Paolo ammonisce i cristiani
provenienti dal paganesimo ad essere misericordiosi con gli ebrei:
cosa che, è necessario riconoscerlo, non sempre essi sono stati capaci
di essere (del resto questa è stata in passato una mancanza reciproca
e non certo unilaterale solo da parte cristiana). Si tratta di una
promessa escatologica che si compirà soltanto alla fine dei tempi. Ed è
per questo che nel corso dei secoli, prima i Padri della Chiesa, si
vedano in proposito le belle e toccanti pagine di Agostino ne “La
Città di Dio”, e poi diversi mistici cristiani, hanno interpretato la
sopravvivenza di Israele dopo Cristo come quella di un popolo
testimone della Verità della Fede in attesa di rientrare nel recinto
sacro dopo che tutti i gentili vi saranno entrati. Ma, appunto per
questo, secondo i Padri ed i mistici cristiani, il ruolo del giudaismo
post-biblico, fino al giorno della Parusia, sarà ambiguo verso
Cristo. Esiste in effetti una forte inquietudine che pervade l’anima
ebraica da duemila anni, che è quella di una evidente sete messianica
che non accettando Cristo non riesce a trovare tregua. La storia
post-biblica di Israele è piena di presunti messia, tutti miseramente
falliti, da Bar Kokheba, che capeggiò la tragica rivolta del 132
soffocata nel sangue dalle legioni romane di Adriano, fino a Sabattai
Zevi e Jacob Frank rispettivamente nel XVI e nel XVIII secolo ed,
oggi, al recentemente defunto Rabbi Schersonn “messia” del gruppo
ebraico ultraortodosso dei Lubavitcher. Tutti costoro hanno acceso
nell’ebraismo post-biblico infervorate speranze messianiche cui
puntualmente sono seguite delusioni cocenti sovente accompagnate da
esiti tragici per gli stessi loro seguaci. Sicché, come diceva Dante
Lattes, nella sua “Apologia dell’ebraismo”, e come ripetono oggi le
migliori intelligenze del rabbinato come Elio Toaff, un po’ alla volta
l’ebraismo post-biblico ha finito per convincersi che l’atteso
“messia” non è un uomo, neanche un capo politico, ma sarebbe lo stesso
Israele, inteso come popolo messianico, “messia collettivo”, deputato
a portare al mondo il Dio di Abramo ed in un futuro più o meno
lontano ad inaugurare, quando tutti i popoli riconosceranno il primato
del Dio di Abramo, ma - si badi bene - alla luce del primato
spirituale dell’Israele/Messia, l’era messianica della Pace Universale
in terra. Un’esegesi però molto pericolosa per via delle sue possibili
ricadute secolari, politiche.
Canzano 6 – Cosa intende dire? Si riferisce al ruolo dello Stato di Israele?
COPERTINO – Non al ruolo dello Stato di Israele, che come tale altro
non è che un soggetto politico di diritto internazionale e che ha tutto
il diritto di esistere e di poter vivere tranquillamente, ma al modo
in cui il fondamentalismo ebraico (perché esiste, benché ignorato dai
media occidentali, anche un fondamentalismo ebraico) interpreta tale
ruolo. La teologia del “messia collettivo”, cui è connessa l’esegesi
dell’esclusività ebraica della Terra Santa (che invece è santa per
tutte e tre le fedi abramitiche e non può dunque essere possesso
esclusivo di una sola di esse: personalmente sono per
l’internazionalizzazione di Gerusalemme), comporta inevitabilmente uno
scivolamento dallo spirituale, dal religioso, verso il politico con
conseguenze nefaste in termini di reciproca tolleranza e di convivenza
pacifica. Il sionismo, in apparenza nato laico, si differenzia dagli
altri movimenti di liberazione nazionale proprio perché, nei suoi
esponenti sia di destra che di sinistra, da Jabotinsky a Ben Gurion,
risente fortemente, e non da oggi, dell’influsso di un certo rabbinato,
due nomi: rabbi Kook e suo figlio, che sin dagli anni venti del XX
secolo ha intravisto in esso un ignaro strumento dell’adempimento delle
promesse messianiche come lette da un certo giudaismo post-biblico,
ossia come promessa del ritorno in massa degli ebrei in Palestina per
la ricostruzione, al fine di ripetere il culto antico dello sgozzamento
sacrificale dell’agnello, dell’abbattuto Tempio di Salomone, ove ora
sorge la Moschea di Omar terzo luogo sacro per l’Islam. Una
prospettiva intrisa di millenarismo, sostenuta anche dai cosiddetti
“cristiano-sionisti” americani, esattamente speculare a quella,
analoga, che si va facendo strada in certi settori fondamentalisti
dell’islam che sognano l’instaurazione del “califfato universale”. Ora,
se le questioni politiche che travagliano la convivenza
interconfessionale in Palestina prendono una piega del genere siamo
davvero al rischio dello scontro di civiltà tanto auspicato dai neocons
americani e dai loro emuli, anche cattolici, italiani ed europei. Da
un punto di visto umano auspico che per la Terra Santa sia trovata al
più presto una soluzione politica e di equità per assicurare la
convivenza, ma da cristiano so bene che la “sete messianica” dei
“fratelli maggiori” si placherà solo quando incontreranno Cristo, quando
diranno “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore”. Ne sono
convinto per l’espressa testimonianza di tutti gli ebrei che nel corso
dei secoli hanno fatto individualmente quel passo, da Ratisbonne a
Israel Zolli ai fratelli Lehmann e molti altri. Tutti hanno testimoniato
di aver ritrovato il vero ebraismo, da essi inquietamente presentito e
inutilmente cercato nei testi talmudici e cabalistici, solo in
Cristo, solo nel Vangelo, sicché, a ragione, hanno sempre protestato
che la loro non è stata una “conversione”, in senso tecnico, ma il
raggiungimento del porto promesso, dell’approdo definitivo a cui la
loro anima ebraica li spingeva pur nella resistenza dovuta alla
precedente “cecità spirituale”. E’ esattamente quel che auspico per
tutti i “fratelli maggiori”, per i quali prego ogni giorno affinché
ritrovino anche loro il vero ebraismo che è solo quello di Cristo. Mi
piace ricordare quanto scriveva Israel Zolli, il rabbino capo di Roma
durante l’occupazione nazista, grande biblista e studioso della figura
di Gesù nonché grande estimatore di Pio XII per l’opera di soccorso a
favore degli ebrei, di cui egli fu testimone, messa in opera da Papa
Pacelli (per questo scelse come nome cristiano di battesimo quello di
Eugenio in onore di Eugenio Pacelli). Zolli diceva che un momento molto
importante nel suo percorso verso Cristo fu quello dell’indignazione
che egli, che sognava un sionismo spirituale che facesse secondo le
profezie di Gerusalemme una casa di preghiera per tutte le genti, provò
nei confronti di quel tipo di rabbinato, sopra ricordato, che
cianciava in termini politico-messianici della “home nazionale”. Zolli
protestò, inutilmente, che i Profeti biblici hanno sperato nel “Regno”
e non in un “regno”, non in una “home”, e, come confidò nelle sue
memorie, mentre si spegnevano le sue illusioni sioniste la sua anima
ebraica andava rinascendo, si ritrovava, nella fede in Cristo.
Canzano 7 – Molto interessante. Questo però ci porta a chiederci
qualcosa circa la pretesa di Verità che è propria di ciascuna e di
tutte e tre le religioni monoteistiche. Lei sa che Lessing ha usato in
proposito l’immagine dei Tre Anelli…
COPERTINO – La cosiddette leggenda della Tre Anella è, a dire il vero,
di origine medioevale. Lessing se ne è appropriato reinterpretandola,
se non ricordo male, in senso negativo, asserendo che in fondo Mosé,
Cristo e Maometto erano degli impostori. Ma non vorrei, appunto,
ricordare male. Quel che invece è sicuro è che, essendo egli un
“fratello di loggia”, Lessing abbia usato la favola delle Tre Anella
come propaganda del relativismo massonico, quello che fa di tutte le
religioni i rami, eguali per valore e messaggio salvifico, convergenti
verso una fantomatica Unità delle Religioni o Tradizione Primordiale.
Come, invece, dicevo la favola in questione, che racconta di un padre
che partendo lascia a ciascuno dei tre figli un anello dicendo loro
che solo uno di essi è quello vero e che l’importante è non sapere
quale esso sia ma conservare il proprio in attesa del suo ritorno
(fuor di metafora: il padre è Dio, i tre anelli sono le tre fedi
abramitiche), esprime al meglio lo spirito di tolleranza che perlomeno
negli ambienti colti, ma anche nei rapporti culturali, commerciali e
politici, l’età medioevale ha conosciuto nei rapporti tra ebrei,
cristiani e mussulmani (il che non significa che non vi siano stati
anche i momenti di scontro, ma non erano in fondo quelli prevalenti).
Cosa dire da un punto di vista cristiano? E’ relativismo quello che la
favola in questione esprime? Penso che lo sia nell’interpretazione
massonica di Lessing ma non nel clima originario ossia medioevale che
l’ha tenuta a battesimo. Un clima nel quale all’assoluto della propria
fede, pur nella ricerca di un modus vivendi (che non era
necessariamente di tipo “egualitario”) con le altre due, non
rinunciavano, e giustamente, né i cristiani, né gli ebrei, né i
mussulmani. Da cristiano posso dire solo che sono sicuro che l’anello
autentico è quello di Cristo e dico questo perché Egli è la figura
centrale nella storia della salvezza anche in ambito ebraico ed in
quello islamico. Dell’ambiguo rapporto di repulsione/attrazione degli
ebrei verso la figura di Cristo e della loro sicura futura conversione
ho già detto. Per quanto riguarda gli islamici, forse essi non sono
ancora del tutto consapevoli del mistero di Cristo insito nel Corano.
Cristo, ovvero Isa, è nel testo coranico il Verbo di Allah nato dalla
Sempre Vergine Maryam e sia Cristo che la Madonna, verso cui l’islam ha
una tenera devozione (e se è vero che la devozione alla Madonna è
segno di salvezza … lascio su ciò riflettere i protestanti!), non sono
presentati nel Corano alla stregua di tutti gli altri esseri umani,
come avviene per lo stesso Maometto. Cristo e Maria, nel Corano, sono
proclamati immuni dal “morso di Satana”, che è come dire immuni dal
peccato originale. Cristo, poi, ha per il Corano una origine speciale,
in qualche modo sovrumana, che ne fonda coranicamente parlando la
superiorità sullo stesso Maometto e rende difficile, nonostante che
l’esegesi islamica non lo ammetta, negare che Cristo non è solo un
uomo. Sembra, infatti, che diversi mussulmani si siano convertiti al
Cristianesimo proprio attraverso una attenta meditazione dei passi
coranici relativi al mistero di Cristo. Il Quale poi, nell’escatologia
islamica, ha un ruolo chiave molto simile a quello che ha in quella
cristiana. Nel Genesi gli arabi, tra i quali molti secoli dopo comparve
Maometto come una sorta di profeta veterotestamentario post-litteram
quasi riservato ad essi solo (e difatti sembra che il Profeta non
volesse predicare che per i soli arabi), sono i discendenti di Ismaele
il figlio che Abramo ebbe con la schiava Agar e che fu salvato
dall’angelo del Signore, che nella Bibbia spesso sottende l’intervento
diretto di Dio in Persona, nel deserto insieme alla madre, dopo essere
stato cacciato dalla gelosia di Sara, moglie legittima del Patriarca
(Gen. 16, 7-13). Ismaele pertanto non è nella linea della promessa
messianica, che è solo quella di Isacco con il quale Dio stipula
l’Alleanza, ma anche a lui, ad Ismaele, Dio fa una promessa (“di lui
farò una grande nazione”, Gen. 17, 20-21). Su questi dati anche noi
cristiani dobbiamo riflettere e non certamente per asseverare la
pretesa islamica di essere il sigillo della Rivelazione, perché tale è
solo Cristo che è Pienezza della Verità, ma per cercare di
intravvedere in prospettiva trans-storica ed escatologica la
realizzazione in atto anche della promessa fatta ad Ismaele: una
promessa anch’essa sicuramente finalizzata in direzione cristocentrica,
come sarà chiaro alla fine dei tempi. Insomma, come gli ebrei anche
gli islamici entreranno un giorno nella Chiesa. Per il momento si
tratta solo di aspettare e pregare, ed operare con le buone opere di
testimonianza, affinché ebrei ed islamici, benché per la via a loro
riservata, giungano a Cristo e tutta la storia della salvezza,
finalmente giungendo a conclusione, converga, come divinamente
promesso, escatologicamente in Lui.
Canzano 8 – Vecchio Testamento, verità o leggenda dei fatti narrati?
COPERTINO – Si tratta di un falso problema. Quando si ha a che fare con
la Scrittura diventa riduzionistico trattarla come un qualsiasi testo
antico senza considerarne il carattere innanzitutto rivelatorio e
sapienziale. Il che non significa affatto negare all’ausilio del metodo
storico, se correttamente usato, un proprio valore. L’importante è non
pretendere che la Scrittura si debba ridurre solo al suo contenuto
letterale. Il letteralismo introdotto da Lutero è infatti il sottofondo
ideologico che vizia l’esegesi storico-critica che voglia pretendere
di dire con la mera analisi filologica l’ultima parola sul senso della
Scrittura. Del resto bisogna anche evitare l’errore opposto, che
porterebbe al fideismo, ossia quello di fare del testo biblico qualcosa
di esclusivamente sapienziale e simbolico, ossia senza radicamento
nella storia, con il rischio di ridurlo ad una mito o ad una gnosi.
Quello esegetico è un aspetto del più vasto problema del corretto
rapporto tra fede e ragione. Quel che noi oggi abbiamo sottoforma di
testo biblico scritto è la codificazione di antichissime tradizioni
orali (nelle culture antiche l’oralità, tramandata con precisi metodi
di trasmissione mnemonica tali da garantire l’invarianza essenziale del
contenuto, ha sempre preceduto la scrittura). Ma, nel caso della
Bibbia, il contenuto del testo si discosta assolutamente ed in modo del
tutto unico da tutte le altre culture religiose dell’umanità a base
mitico-immanente. Nel testo biblico non ci sono, all’origine del mondo,
lotte tra titani e deità o la contrapposizione di “doppi contrari”,
non c’è la deificazione magica delle potenze della natura e l’uomo non è
in balia dell’arbitrio di déi, emanazioni eoniche di una oscurità
abissale non manifestata, dei quali deve rabbonire l’ira magari con
sacrifici umani o deve propiziare il favore con offerte rituali anche
cruente. In un mondo di magia e di panteismo, la Bibbia, unica, afferma
che il sole e la luna non sono deità ma creature. Con questo si apre
la strada da un lato all’affermazione della creaturalità, ed alla
negazione della divinità, del cosmo e dall’altro al recupero della di
una sua “sacralità”, ma per derivazione creaturale e non per auto
sussistenza. L’universo, in tal modo può anche essere oggetto di
indagine scientifica (se l’universo non è creato ma è un “dio” è
evidente che esso non può essere studiato razionalmente perché
“magico”) ma al tempo stesso deve essere rispettato come dono del suo
Autore. Al di là delle immagini usate, e che cambiano nel corso dei
secoli mano a mano che la Rivelazione procede senza per questo cambiare
l’essenza del contenuto rivelato (non esiste, ad esempio, un unico
racconto della creazione, ma dopo il Genesi, e con immagini diverse,
magari più sapienziali, ritroviamo l’idea del cosmo come creazione
anche nel libro della Sapienza, nei Salmi e nei Profeti, etc.), il
messaggio fondamentale del testo biblico è quello per il quale
l’universo ha un inizio e nasce da un atto d’Amore creativo, da un
“Fiat” che è Parola, Verbo, Progetto, ed ha un fine che è quello della
trasfigurazione gloriosa alla fine dei tempi. Per la Bibbia l’universo è
fatto per consentire l’esistenza dell’uomo, ossia è fatto per amore
dell’uomo. Ora, questo messaggio, questo contenuto rivelato, è oggi
confermato dalla scienza che ha individuato nel cosmo un momento
iniziale dal nulla ed una direzione finalizzata alla comparsa della vita
intelligente. Il cosiddetto “principio antropico”, nella sua
formulazione “debole”, conferma esattamente quanto il testo biblico, con
altro linguaggio, in apparenza mitico nel Genesi, più sapienziale e
teologico nei testi detti per l’appunto “sapienziali” come Proverbi o i
Salmi, ci ha rivelato. Certo il mondo non è stato fatto letteralmente
in sette giorni, come pretendono i protestanti fondamentalisti e
letteralisti (la Chiesa cattolica ha sempre condannato il
“letteralismo”). Quel che invece, con il racconto dei sette giorni, il
Genesi vuol dirci è che il ritmo settenario rinvia ad un linguaggio
cifrato sapienziale che esprime l’armonia cosmico-matematica di un
Progetto nato da una Intelligenza Infinita. Diversi scienziati sono oggi
dell’avviso che la descrizione biblica della creazione e quella
scientifica dell’origine dell’universo abbiano profonde assonanze quasi
si trattasse dello stesso “racconto” secondo linguaggi solo in
apparenza distanti ed incomunicabili. Il che non deve farci cadere in
un facile ed ingenuo concordismo, anch’esso influenzato dal
letteralismo, sul tipo di certo cosiddetto “creazionismo scientifico”
di matrice protestante ed americana. L’importante è, però, sempre
tenere uniti i due capi dell’unica corda: Sapienza e storicità. Ho
detto, si badi, “storicità” e non a caso. Infatti la Rivelazione, poi
codificata nella Scrittura e tramandata dalla Tradizione, ha un
carattere sia sapienziale che storico. Ma quando parliamo di storia in
rapporto alla Scrittura dobbiamo tenere sempre presente che una cosa è
la storicità ed un’altra la “storiograficità” nel senso della moderna
indagine storiografica. Nella Bibbia, soprattutto nella sue parti più
antiche, quel che è prevalente è la “storicità”, l’essere, come si è
detto, a differenza delle culture religiose arcaiche a carattere
mitico, una Rivelazione che entra nella storia umana. Non ha importanza
l’esattezza, appunto, storiografica delle date, dei luoghi, dei
tempi, come se si trattasse di un moderno testo di storiografia di una
qualche università di storia. Quel che ha importanza è la base
storica, che è sicura al di là dell’approssimazione storiografica dei
riferimenti, letta però, questa base storica, in una chiave tale da
trasmettere il senso teologico e sapienziale degli eventi. Non ha
importanza se Abramo provenga effettivamente da Ur dei Caldei o se
invece fosse nient’altro che un “hapiru” (da cui pare derivi la parola
“ebreo”) ossia un tipico nomade semitico dell’area vicino orientale.
L’importante è che il contesto della vocazione di Abramo sia
storicamente sostenibile, come appunto è quello biblico. La diatriba
tra Caino ed Abele rinvia chiaramente alla lotta atavica tra
popolazioni agricolo-sedentarie e popolazioni nomadi-pastorali, ma quel
che è importante nel testo biblico è l’evidenziazione dell’esito
sanguinoso e fratricida del peccato. Probabilmente il diluvio
universale, che è presente quasi fosse un atavico ricordo in tutti i
miti antichi, è la memoria di una qualche catastrofe globale, forse
dell’esplosione di un “Vei”, come i geologi oggi chiamano un
supervulcano di gigantesche dimensioni, avvenuta a Sumatra circa 75.000
anni fa (oggi al posto del supervulcano esploso vi è il lago Toba
formatosi nell’antica sede del cratere) e che produsse ininterrotte
piogge nonché l’ennesima glaciazione ed una sorta di effetto serra su
tutto il pianeta, sicché le carestie che ne seguirono per mancanza di
sufficiente luce solare sterminarono per fame quasi l’intera
popolazione mondiale dell’epoca (si salvarono poche centinaia di
persone, adeguatesi a vivere, dopo aver abbandonato le pianure, nelle
zone più montuose). Quel che la Bibbia intende sottolineare con la
storia del diluvio è che i mali, anche quelli naturali, derivano
dall’abbandono, per l’idolatria magica, del Vero Culto al Dio
Trascendente. Nella liturgia cristiana poi il Diluvio è diventato
simbolo delle acque rigeneratrici del battesimo, che mondano dal
peccato. Il racconto della prova cui Dio sottopone Abramo chiedendogli
di sacrificare il suo unico figlio, se teologicamente è figura
tipologica del Sacrificio del Figlio Venturo, di Cristo, sulla Croce,
storicamente rinvia ad un momento nel quale si iniziava da parte
dell’umanità ad abbandonare, sebbene lentamente, il sacrificio umano
connesso con i riti propiziatori del paganesimo più antico. Le lotte
cruente di Israele con i popoli circumvicini, che spesso scandalizzano,
per il fatto che Dio ordina lo “sterminio” dei nemici, anche più di un
cattolico tentandolo al marcionismo (ossia al rigetto dell’Antico
Testamento in favore del solo Nuovo Testamento), sono l’eco della lotta,
che era non solo politica ma anche religiosa, affrontata da Israele
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Il Signore ti benedica e ti custodisca. Sono vietate offese alla religione cattolica